In marcia verso la normalità

Politica monetaria Usa – Dopo sette anni di Pil positivo e 16 milioni di posti di lavoro creati, la Fed aumenta i tassi di interesse. Con lo scenario di «re-flazione» trumpiano, il prossimo aumento del costo del denaro sarà già a giugno
/ 20.03.2017
di Federico Rampini

«Il messaggio è semplice: l’economia sta bene». Con queste parole la presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, ha riassunto mercoledì 15 marzo le ragioni della sua ultima mossa: un nuovo aumento dei tassi d’interesse direttivi, di un quarto di punto. Con questa decisione il livello dei tassi federali viene a situarsi in una forchetta tra 0,75% e 1%, che rimane storicamente bassa ed è un’eredità della politica monetaria eccezionalmente espansiva adottata dopo la crisi del 2008 per rilanciare la crescita. Missione compiuta. Dopo sette anni di Pil positivo, e 16 milioni di posti di lavoro creati, la Yellen può permettersi un giudizio positivo che si applica a poche altre economie nel mondo. E la Fed può continuare la sua lenta marcia di avvicinamento verso la normalità. Molto lenta, finora, ma in accelerazione. Quello deciso la scorsa settimana è solo il terzo rialzo dei tassi dal 2008 in poi. Gli ultimi sono arrivati col contagocce, uno all’anno, nel dicembre 2015 e nel dicembre 2016. Ma il prossimo dovrebbe arrivare presto, con ogni probabilità a giugno. Le attese ora sono di tre rialzi all’anno, per arrivare ad un tasso un po’ più normale, cioè del 3%, alla fine del 2019.

La Yellen, che fu nominata da Barack Obama e comunque se ne andrà alla scadenza del suo mandato fra un anno, ha avuto un incontro con Donald Trump e col segretario al tesoro Steven Mnuchin, al termine del quale ha espresso un’apertura di credito verso i piani del presidente. «Se verranno attuate – ha detto la banchiera centrale – delle politiche che rafforzano la produttività e la velocità di crescita, sarebbero benvenute». Per ora la Fed si attesta su una previsione di «crescita moderata»: al 2,1% quest’anno e in quello successivo, dopo il +1,6% nel Pil dell’anno scorso. Lo scenario è leggermente «re-flazionistico», con l’indice dei prezzi che sta raggiungendo infine l’obiettivo della banca centrale cioè il 2%. La disoccupazione è scesa al 4,7%. Siamo ancora all’interno dell’eredità obamiana, cioè un settennato di crescita buona ma non così vigorosa da riassorbire completamente le sacche di disoccupazione nascosta, né tale da sanare le enormi diseguaglianze all’interno del Paese.

Le conseguenze pratiche del rialzo dei tassi si verificano a cascata sull’economia reale, attraverso la trasmissione a una serie di altri rendimenti che sono indicizzati ai tassi direttivi della Fed. Le banche hanno immediatamente rincarato dal 3,75% al 4% il prime rate, cioè il tasso praticato sui fidi alla clientela più solida. Aumentano automaticamente i tassi passivi sugli scoperti delle carte di credito, tipico strumento con cui le famiglie americane finanziano i propri consumi. E aumentano i ratei su tutti i mutui a tasso variabile. Siamo dunque di fronte a un «prelievo» di ricchezza su famiglie e imprese, e un trasferimento di risorse a vantaggio del sistema bancario. Tra i perdenti c’è anche lo Stato, ovviamente, poiché i rendimenti che deve pagare sul debito pubblico si muovono in sintonia coi tassi della Fed.

Pochi giorni prima della decisione sui tassi, era giunto l’ennesimo dato positivo sull’occupazione: 235’000 nuovi assunti a febbraio. Era il primo mese «pieno» di Trump presidente. Lui ha cantato vittoria: «Primi 50 giorni alla Casa Bianca: balzo nella creazione di lavoro». I suoi avversari hanno buon gioco a ricordargli che la sua azione ancora non ha potuto avere il minimo impatto sull’economia reale. Peraltro, oggi Trump si appropria il merito di un tasso di disoccupazione sceso al 4,7% mentre in campagna elettorale denunciava questi dati come «truccati da Obama».

Chi ignora soavemente queste polemiche, sono gli investitori finanziari. La Borsa americana ha segnato a marzo un compleanno importante: otto anni di Toro, come si definisce nel gergo tecnico una crescita consecutiva degli indici azionari, non interrotta da cali del 20% o superiori (che sarebbero fasi ribassiste: Orso). Otto anni di vacche grasse, per restare in metafora zootecnica, e un rialzo complessivo del 250%, iniziato in quel terribile marzo 2009 in cui infuriava la più grave recessione dopo la Depressione degli anni Trenta. Insieme alle celebrazioni del compleanno, si affacciano interrogativi ansiosi: siamo in una nuova bolla pronta a deflagrare?

In pochi luoghi questo tema è così evocativo come a San Francisco, capitale della Silicon Valley, nonché epicentro 17 anni fa di un memorabile disastro: nel marzo 2000 scoppiò la bolla speculativa del Nasdaq, mettendo fine all’euforìa della «prima rivoluzione di Internet». La chiamavamo la New Economy. Alan Greenspan, allora presidente della Federal Reserve, aveva avvertito i segnali di una «esuberanza irrazionale», riprendendo l’analisi preveggente dell’economista Robert Shiller. Però poi lo stesso Greenspan si era rassegnato all’euforìa, era diventato un apologeta acritico della Grande Moderazione – una teoria iper-ottimista presto smentita dai fatti, oggi caduta nell’oblìo – e alla fine era stato colto di sorpresa dal crack. Come quasi tutti. Oggi nella Silicon Valley siamo al replay: il sindaco di San Francisco lancia l’allarme perché perfino i professori universitari emigrano cacciati dagli affitti esosi, la corsa agli acquisti di case sta trasformando questa città in una «Dubai sul Pacifico». E il collocamento in Borsa di Snapchat, con rialzo iniziale di oltre il 40%, evoca gli eccessi del Nasdaq al passaggio del Millennio.

Gli ottimisti, che ancora prevalgono, ricordano che questo Toro ancora ha della strada da fare prima di essere un record assoluto. Per la durata e ampiezza del rialzo lo supera proprio il periodo dall’ottobre 1990 al marzo 2000: ben 113 mesi di Toro e +417% di rialzo. Come dimensione di guadagno è superiore anche il Toro del dopoguerra, dal 1949 al 1956: +267%. Gli stessi ottimisti segnalano che il livello dei prezzi non ha ancora raggiunto la soglia di guardia (30 volte gli utili) che segnò l’inizio della fine per la bolla «californiana» del 2000. E chi ha voluto prevedere il disastro, come George Soros che a novembre scommetteva su un crack dopo l’elezione di Trump, si è fatto del male (per la precisione un miliardo di perdita netta). Dall’Election Day a oggi, i mercati hanno festeggiato Trump con un ulteriore rialzo che sfiora il 15 per cento, un’altra smentita per molti esperti già scottati da Brexit.

Dietro questo Toro di otto anni, c’è una crescita economica anch’essa da quasi-record, almeno per la durata. È una delle riprese più lunghe della storia, anche se l’eccezionale dilatazione delle diseguaglianze ne ha fatto una «crescita infelice», col corredo di frustrazione sociale e ribellione anti-establishment che Trump cavalca. Lo stesso Trump, in campagna elettorale denunciò una «bolla speculativa pronta a scoppiare»: tutta colpa di Obama e della «sua» Yellen, naturalmente. Ora si sta augurando che la sua profezia non si avveri. Perché nell’euforìa attuale di Wall Street è all’opera evidentemente un ottimismo selettivo: gli investitori stanno scommettendo che Trump riuscirà a fare tutto ciò che piace a loro, mentre non farà tutto ciò che loro temono. Celebrano in anticipo le sue riduzioni di tasse, gli investimenti in riarmo e infrastrutture, la deregulation bancaria e anti-ambientalista, tutto ciò che può alimentare «reflazione»: un aumento dei prezzi fa bene anche alle azioni, spostando capitali dai bond verso la Borsa. Viceversa sembrano fiduciosi che lui non scatenerà una guerra commerciale con la Cina né chiuderà davvero le frontiere agli immigrati di cui le imprese hanno bisogno. Su quest’ultimo punto, i fatti sembrano dare ragione all’ottimismo dei mercati: la decisione di un giudice delle Hawaii di bloccare l’applicazione del decreto presidenziale sigilla-frontiere – anche nella seconda versione riveduta e corretta – sembra confermare che il contro-potere giudiziario si accanisce contro Trump per impedirgli misure drastiche di controllo dell’immigrazione.

Intanto Trump ha nominato un altro ex Goldman Sachs nel suo governo, il numero due del Tesoro (anche il numero uno, il segretario al Tesoro Steve Mnuchin, viene dalla stessa banca). È il quarto banchiere di Goldman in questo esecutivo. Altra nomina che piace a Wall Street e fa inorridire i democratici: a capo della potente Cftc che vigila sui derivati, Trump ha messo l’italo-americano Christopher Giancarlo che è un noto sostenitore della deregulation finanziaria. Si ritorna velocemente alla situazione normativa pre-2008 smantellando le regole introdotte da Obama per limitare la speculazione. Tutto questo è avvenuto in una settimana che Trump ha voluto chiudere «in bellezza» visitando Detroit, la capitale dell’automobile, per rendere omaggio a quella classe operaia che l’8 novembre fu decisiva per portarlo alla Casa Bianca. Nel suo ritorno trionfale a Detroit, il presidente ha usato i suoi slogan protezionisti: comprare americano, reindustrializzare gli Stati Uniti. Prima o poi bisognerà fare un bilancio su chi siano davvero i vincitori e i perdenti delle sue promesse: è difficile imboccare un sentiero di crescita che soddisfi simultaneamente i metalmeccanici di Detroit e i banchieri di Wall Street.