In Italia tanti sconfitti e nessun vincitore

Dopo la rielezione di Mattarella al Quirinale i partiti si sforzano di ragionare su un futuro che nemmeno intravvedono
/ 07.02.2022
di Alfio Caruso

Artisti sotto la tenda del circo: perplessi fu un famoso film tedesco occidentale del 1968, quando esistevano due Germanie e niente lasciava presagire un’unione. Vinse anche il Leone d’oro a Venezia e oggi potrebbe attagliarsi quale titolo del caravanserraglio dei partiti italiani, dove ciascuno non ha ancora compreso che cosa sia esattamente accaduto e si sforza di ragionare su un futuro che nemmeno intravvede. La rielezione alla presidenza della Repubblica di Sergio Mattarella (che ha prestato giuramento giovedì scorso) lascia dietro di sé tanti sconfitti e nessun vincitore. Al massimo hanno pareggiato Enrico Letta, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. È però l’assetto politico ad essere stato terremotato in vista delle elezioni nella primavera del 2023, allorché entrerà in vigore la drastica riduzione di deputati (da 630 a 400) e senatori (da 320 a 200).

Il M5S, sulla carta la forza di maggioranza relativa, s’interroga su quale fosse il proprio candidato – probabilmente non lo sapeva neppure Giuseppe Conte – e su quale sarà il proprio destino: dal 33% abbondante del 2018 le previsioni ora lo danno al 15% con il timore di franare al 10% e la concreta prospettiva di una scissione, se Conte e Luigi Di Maio non fingeranno di trovare un’intesa. Alla prova della realtà lo slogan dell’esordio «uno vale uno» si è palesato del tutto fasullo.

La Lega alle Europee del 2019 aveva superato il 34% e racimolato quasi dieci milioni di voti. Significava il raddoppio dei consensi dell’anno prima: fu il risultato che rovinò Matteo Salvini. Tentò di far cadere il Governo di coalizione con il M5S e cadde soprattutto lui. Da quel dì una sconfitta dopo l’altra fino alla catastrofe della scorsa settimana. Aveva annunciato un presidente di centrodestra e si è unito a quanti hanno scongiurato il cattolico «sinistrorso» Mattarella di rinunciare alla caparra versata per l’affitto della nuova casa ai Parioli e di rientrare al Quirinale. Aveva preteso di voler distribuire le carte e non si era accorto che si trattava di un solitario. Stilava rose, che appassivano prima ancora di essere annunciate, e per trovare nomi da proporre ha preso a consultare l’elenco telefonico. Adesso tenta di riemergere intestandosi un antico disegno di Berlusconi – il partito repubblicano a impronta Usa – con il retropensiero d’inglobare Forza Italia.

Fratelli d’Italia potrebbe perfino toccare il 20% alle prossime consultazioni, ma non riesce a entrare nella stanza dei bottoni. Giorgia Meloni è stata assai abile nel lasciare il cerino accesso in mano a Salvini, è rimasta coerente con quanto affermato nell’ultimo anno, tuttavia la scomposizione del vecchio centrodestra rischia di confinarla dentro il ghetto: tonitruante, caparbia, polo di attrazione di molti antagonisti, però – come dicono nella «sua» Roma – tutti la vogliono e nessuno la piglia per paura di contaminarsi con quanto di antieuropeismo, di novax, di neo fascismo alligna all’interno di Fdi.

Finita la tregua elettorale, il Partito democratico è già una polveriera. Ci sono le contrapposizioni insanabili dei boss, che interpretano la colleganza come odio vigilante. Ci sono le dispute fra gli ex colleghi democristiani, intenti a farsi fuori, mentre gli ex comunisti s’interrogano dubbiosi su quale può essere l’utile idiota da appoggiare. E ci sono le contrapposizioni con i fuoriusciti, che occupano un piccolo spazio alla sinistra del partito e che per riaccasarsi chiedono la luna. E dire che sulla carta il Pd sarebbe il partito uscito meglio dalla contesa presidenziale. Mattarella, infatti, era il piano B di Letta, acceso sostenitore di Draghi. Il segretario potrebbe dunque vantare di avere azzeccato il cavallo di riserva, viceversa deve preoccuparsi di salvaguardare il cammino del Governo, sottoposto alle bizze umorali dei leghisti, e d’individuare un nuovo, possibile alleato. La strombazzata unione progressista con il M5S è minata dall’inaffidabilità di Conte. L’allargamento ai cespugli del centro sconta la difficoltà d’intendersi con Renzi, che 8 anni addietro lo detronizzò dalla presidenza del consiglio con il famoso tweet: «Stai sereno Enrico».

E così siamo a Renzi: nella settimana delle votazioni si è confermato il più abile, il più spregiudicato, il più voltagabbana. Puntava su Pier Ferdinando Casini e ha provato a intestarsi Mattarella. Ha il talento del mestierante, ma i suoi partner temono la spregiudicatezza di chi non si rassegna ad avere un grande avvenire dietro le spalle. Si ama e si corrisponde sorprendendosi che i colleghi non provino lo stesso sentimento, anzi avvertono, appena si avvicina, puzza di fregatura. Vorrebbe raggruppare attorno a sé il centro, ma è scoperto nel desiderio di sottomettere gl’improvvidi che accettino il suo progetto. Si muove con la sicumera di un capopopolo, però è zavorrato dal 2% scarso dei sondaggi. È convinto di ripartire con la prossima tornata elettorale, viceversa potrebbe esser costretto a fungere da ruota di scorta. Bocciata con gusto la propria presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati; boicottati i disegni di Salvini; fatto asse con il Pd prima per poi stoppare la capa dei servizi segreti, Elisabetta Belloni, per votare Mattarella, Forza Italia è vicina allo spappolamento. Il motivo sono gli anni, 86, e la cagionevole salute di Berlusconi. Il Tutankhamon di Arcore aveva assestato una legnata ai presunti alleati Salvini e Meloni obbligandoli ad assecondare l’inverosimile sceneggiata dell’autocandidatura. In seguito si è messo di traverso all’insegna del «dopo di me, il diluvio». In effetti è il cataclisma, in cui potrebbe incappare la sua creatura, dalla quale molti preparano la fuga sperando di essere ancora in tempo a trovare asilo nei gruppuscoli moderati. D’altronde, negli anni, Berlusconi ha segato quanti aveva designato alla successione: prova evidente dello scarso, se non nullo interesse per ciò che accadrà alla sua scomparsa.

Nonostante il geniale colpo di ergersi a supremo facitore del rientro di Mattarella, anche l’austero Mario Draghi figura tra gli sconfitti. Ambiva alla presidenza della Repubblica, si dovrà accontentare della presidenza del Consiglio. La crisi dei partiti e il dichiarato sostegno di Mattarella inducono molti a ritenere che tornerà a essere il decisionista dei primi mesi di Governo, con in più il sottile piacere di far pagare a diversi ministri la dichiarata ostilità alla sua scalata. Ma nemmeno per lui sarà un anno facile: deve mostrare all’Europa che sa spendere bene i 200 miliardi di aiuti; deve affrontare la riforma fiscale, la riforma della giustizia, la riforma del catasto, l’ennesima riforma del sistema elettorale; deve apparire agli italiani così bravo e insostituibile da indurre i partiti a scongiurarlo, fra 15 mesi, di rimanere alla guida del Governo, qualunque fosse l’esito delle elezioni. Insomma, ci divertiremo.