Addis Abeba, con i suoi 2200 metri sul livello del mare, è una città caotica, un movimento continuo di persone, auto, pulmini. Nella capitale dello Stato etiope vivono ufficialmente circa 4 milioni di persone, ma sono sicuramente molti di più, almeno il doppio. Camminando in questo caos, tra i nuovi grattacieli in costruzione nel centro, così come nelle strade delle periferie, si nota che non c’è plastica nelle strade. Altri rifiuti, ma non la plastica. Perché Addis Abeba ha scoperto il valore di riciclare soprattutto le bottiglie d’acqua, che sono diventate una fonte di guadagno per molti. Giovani raccoglitori, con il loro sacco sulle spalle, come strani Babbo Natale, camminano lungo le strade e i prati a raccogliere le bottiglie. E quando il sacco è pieno, il contenuto viene venduto ad un primo centro di raccolta, che a sua volta lo vende poi ai centri più grandi, dove inizia il processo vero e proprio di riciclo. E sicuramente l’Etiopia sta diventando importantissima nella lotta all’inquinamento della plastica.
Inventata alla fine dell’Ottocento ed entrata in produzione intorno al 1950, rappresenta un simbolo di questi ultimi 70 anni, e la ritroviamo in tantissimi oggetti. Ha cambiato le nostre vite, in alcuni casi le ha migliorate. Oggi, sui 400 milioni di tonnellate prodotte ogni anno, il 40 per cento è monouso, come le bottiglie di plastica, appunto.
L’Etiopia, anche se povero, è un paese in continua crescita, il 70% della popolazione ha meno di 25 anni e i consumi di bottiglie di plastica sono aumentati vertiginosamente. Più di 20 milioni nel 2010. Ma non avendo un piano per il recupero dei rifiuti, la plastica veniva abbandonata nelle strade o nelle discariche. Ora la plastica raccolta per strada viene venduta a 5 birr (circa 15 centesimi di euro) al chilo, per essere poi rivenduta a 7 birr alle aziende che riciclano. «Riesco a raccogliere circa 15 ai 20 chili di bottiglie al giorno» mi dice Miky mentre si aggiusta il suo cappello da baseball. Siamo davanti ad un centro di raccolta, ce ne sono molti come questo ad Addis Abeba, gestiti da privati. «Inizio la mattina presto, continua Miky, conosco tutte le strade del quartiere, so dove andare. È un lavoro faticoso, devi camminare molto, ma non avendo altro modo per guadagnare, per adesso mi va bene così». La vita ad Addis Abeba non è facile, i prezzi dei prodotti e dei servizi sono alti. E gli stipendi, per le classi medio basse, non bastano mai.
Una volta che i grandi sacchi che contengono 35-40 chili di bottiglie sono pieni, vengono portati in un secondo centro, dove iniziano le varie fasi di riciclaggio. In quello che ho visitato, uno spiazzo grande almeno come tre campi da tennis alla periferia di Addis Abeba, ci sono le vere guerriere della lotta al PET: le donne. Sono loro che danno la spallata più forte per il processo di riciclo. Tante donne, con i loro foulard dai colori vivaci avvolti intorno ai capelli, un continuo vociare e ridere con il sottofondo costante del rumore della plastica. Sedute su piccoli e bassi sgabelli, circondate da un mare immenso di bottiglie, con il taglierino tolgono l’etichetta, poi svitano il tappo e separano le bottiglie per colore gettandole dentro grandi sacchi. Quelle blu, quelle verdi, quelle trasparenti. Questo lavoro è svolto solo da donne, gli uomini, comunque presenti, preferiscono lavori di fatica. Una volta che i sacchi sono pieni, anche questi con circa 35-40 chili di bottiglie, vengono trascinati dentro al capannone, davanti alle presse che comprimono le bottiglie fino a ricavare le balle. Anche qui, solo donne.
Al loro fianco però, una associazione ticinese, l’Associazione Zenzero, le aiuta a migliorare le loro condizioni di vita, sostenendo attività sociali e soprattutto fornendo posti di lavoro in cambio di sostegno agli imprenditori locali: ti fornisco assistenza gestionale o finanziaria, ti faccio avere le presse in comodato d’uso dalle grandi aziende di riciclo, però tu devi assumere le donne. Perché non è facile trovare un lavoro per una donna ad Addis Abeba. «Lavoro in questo centro per il riciclo da circa tre anni», mi dice Mulku, 20 anni e un foulard a righe colorate che le incornicia il viso. «Prima lavoravo solo poche volte al mese come domestica. Adesso grazie a questo lavoro insieme allo stipendio di mio marito riusciamo a vivere meglio e stiamo pensando di fare il nostro primo figlio» dice mentre un sorriso le illumina il viso. «Si lo so, forse non è il miglior lavoro possibile», interviene Yeshi, che lavora in coppia con Muluku davanti ad una pressa, ha 22 anni e vuole costruirsi un futuro. «Vivo ancora con i miei genitori, – continua Yeshi – ma grazie ai soldi di questo lavoro aiuto la famiglia e riesco a pagarmi la scuola serale. Voglio diventare contabile» aggiunge, mentre si sistema la tuta da lavoro, pronta a infilarsi di nuovo i guanti e a spingere le bottiglie di plastica nella pressa. Gli stipendi variano dai 50 ai 100 dollari al mese, dipende dai centri. Fuori intanto, sul piazzale con montagne di bottiglie, l’attività di selezione continua frenetica. Mi fermo a parlare con Habtam, una signora di 35 anni. Il taglierino per togliere le etichette legato alla cintura. «Per voi europei forse tutto questo non è normale, ma qui, in Etiopia, è difficile emanciparsi per una donna. Anche se siamo noi la forza di questa società, dobbiamo lottare per uscire dalla sottomissione».
Intanto un camion carica le balle pressate, chili e chili di PET, per portarle nelle aziende che fanno il percorso finale del riciclaggio: lavaggio e riduzione in scaglie. Pronte a partire per l’Europa o l’oriente, dove verranno riutilizzate per creare nuovi oggetti di plastica alcuni dei quali, molto probabilmente, arriveranno anche nelle nostre case.