In Cina i cattolici restano in gabbia

Come si sono evolute le relazioni tra il Vaticano e Pechino, dall’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi a oggi
/ 05.12.2022
di Giorgio Bernardelli

Per il Vaticano non parevano proprio esserci dubbi sul fatto che la strada del dialogo imboccata con Pechino sei anni fa, con lo storico Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, sia l’unica percorribile. L’avevano rinnovato poco più di un mese fa. Certo, papa Francesco (nella foto) in una delle sue spericolate conferenze stampa volanti, aveva riconosciuto che «si va lentamente, alla cinese». Comunque in un sabato di fine di novembre si è materializzato un duro comunicato della Santa sede che – per la prima volta dopo anni – ha messo i puntini sulle «i» con Pechino riguardo alla vicenda di un vescovo locale. Un presule che, probabilmente dopo pressioni estremamente convincenti, ha abbandonato la sua comunità «clandestina» nello Jiangxi per accasarsi nei ranghi di una diocesi «ufficiale». Senza avallo da parte di Roma e con tanto di promessa di adoperarsi per «guidare attivamente il cattolicesimo ad adattarsi alla società socialista».

Di recente ha impresso uno scossone profondo alle relazioni tra il Vaticano e Pechino la vicenda di mons. Peng Weizhao, 56enne vescovo di Yujiang, che sembra aver all’improvviso riportato indietro le lancette dell’orologio in uno dei grandi scenari geopolitici su cui papa Francesco ha scommesso di più nel suo pontificato: l’apertura di un canale di dialogo diretto con la Cina di Xi Jinping. Tutto ruota intorno all’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, il documento sottoscritto dal Vaticano e dalla Repubblica popolare cinese per la prima volta il 22 settembre 2018. Testo dal contenuto segreto, ma con obiettivi da entrambe le parti abbastanza chiari. Roma ha ottenuto (almeno sulla carta) la fine dello scisma prodotto dalla Rivoluzione comunista del 1949, quando dopo l’espulsione di tutti i missionari stranieri ai cattolici cinesi rimasti nella Repubblica popolare furono dati dei vescovi ordinati «autonomamente» senza il mandato del papa. Candidati selezionati dall’Associazione patriottica, l’organismo cattolico ufficiale controllato dal Partito. Ma quella dell’Accordo è stata una «riunificazione» solo a metà: Pechino ha mantenuto, infatti, il controllo sulla scelta dei preti da promuovere all’episcopato, riservando al Vaticano solo la possibilità di scegliere se ratificare o meno le nomine. Con così poco la Repubblica popolare cinese ha incassato un grande risultato d’immagine, giocando di sponda con una personalità come papa Francesco, un leader globale non certo politicamente allineato dalla parte degli Stati Uniti.

Di per sé un Accordo di questo tipo non conterrebbe novità sconvolgenti: già dagli anni Ottanta – finito il decennio terribile della Rivoluzione culturale, quando la persecuzione religiosa in Cina non faceva più grandi distinzioni tra «ufficiali» e «clandestini» – i confini tra le comunità cattoliche avevano cominciato a farsi più labili. Molti vescovi ordinati «autonomamente» dalla Cina per diocesi sulla carta «indipendenti», appena in carica segretamente iniziavano a prendere contatti con Roma e a farsi riconoscere dal papa. Negli stessi controllatissimi seminari di Pechino e Shanghai nascevano programmi per inviare i futuri preti cinesi a studiare in Occidente. Mentre Roma – progressivamente – diventava più cauta nell’autorizzare le comunità «clandestine» a ordinare propri vescovi alternativi a quelli «ufficiali». Benedetto XVI stesso parlava ormai di «un’unica Chiesa in Cina». E negli ultimi anni del suo pontificato – anche senza un’intesa formale – molte nomine «ufficiali» erano già avvenute con l’avallo del Vaticano.

Del resto a essere cambiati rispetto al 1949 non erano solo i rapporti internazionali ma la fisionomia stessa del Paese: la Cina del XXI secolo è letteralmente un altro pianeta rispetto alla realtà rurale intorno a cui erano disegnati i confini delle diocesi dei tempi di Mao. E tra i cattolici cinesi non manca chi in questi anni ha vissuto da protagonista il nuovo dinamismo economico e sociale che ha trasformato Pechino in una potenza globale. L’Accordo provvisorio, dunque, doveva rappresentare il compimento di queste trasformazioni. Con il papa gesuita che – quattro secoli dopo il suo confratello Matteo Ricci e in nome dell’«amicizia con il popolo cinese» – portava a compimento quello stesso dialogo che nel Seicento era stata la miopia degli interessi politici della Chiesa di allora a far naufragare. Intendiamoci: non è che in Vaticano fossero diventati talmente ingenui sulla Cina da non ricordare la lunga sequela di carcerazioni, violenze e intimidazioni subite in quegli stessi anni da sacerdoti e vescovi (clandestini) che avevano provato a smarcarsi troppo dal controllo del Partito. Nessuno a Roma si illudeva che a Pechino fosse improvvisamente scoccata l’ora della libertà religiosa. Ma, a chi obiettava, dalla Curia si rispondeva: «Sappiamo che i cattolici in Cina sono in gabbia. Lavoriamo per rendere questa gabbia un po’ più larga». Qualcuno si disperava e strepitava lo stesso di fronte a tale prospettiva, come il vescovo emerito di Hong Kong, il cardinale Joseph Zen oggi novantenne. Ma nel «cerchio magico» di papa Francesco veniva liquidato come un nostalgico degli steccati.

Negli ultimi anni, però, i nodi sono cominciati a venire al pettine. Cominciando dal più rilevante: che significato attribuisce davvero Pechino all’Accordo firmato con il Vaticano? I segnali in questo senso sono stati sconfortanti: appena 6 nuovi vescovi nominati in tutto, mentre ci sono 36 diocesi (più di un terzo del totale) che rimangono senza una guida. L’ultima nomina è avvenuta l’8 settembre 2021, cioè più di un anno fa. La verità è che l’unico interesse della Repubblica popolare cinese resta affermare il proprio controllo sui cattolici in Cina.

Non solo. Le autorità di Pechino dal 2018 a oggi hanno anche utilizzato l’Accordo con un obiettivo preciso: smantellare ciò che resta delle comunità «clandestine». Se la Chiesa in Cina anche per papa Francesco ormai è una sola – è il messaggio che è stato fatto passare – tutti i sacerdoti hanno l’obbligo di «registrarsi» nell’Associazione patriottica. E di seguire il programma che il presidente Xi Jinping ha affidato alle religioni: la loro «sinicizzazione», cioè la coerenza con l’ideologia nazionalista che il comunismo cinese del XXI secolo propaganda come unico vero collante del Paese. Nulla è più ammesso al di fuori di questo alveo: la stessa trasmissione delle messe online è vietata senza una specifica autorizzazione del Partito. Il tutto mentre i leader delle comunità cattoliche vengono convocati per speciali sessioni di studio del pensiero di Xi Jinping, appena riconfermato per il suo terzo mandato.

La vicenda di mons. Peng Weizhao è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso in Vaticano. Nel comunicato diffuso di recente l’Accordo non viene messo in discussione e si assicura l’intenzione di proseguire il dialogo con Pechino. Ma l’illusione di essere riusciti ad «allargare la gabbia» per i cattolici in Cina è ormai svanita: basta vedere quanto accaduto a Hong Kong negli ultimi tre anni e oggi nella Cina continentale per le proteste contro la politica zero-Covid per avere chiara consapevolezza che è accaduto esattamente il contrario. L’ultimo schiaffo è arrivato a settembre quando papa Francesco e Xi Jinping si sono ritrovati nelle stesse ore ad Astana in Kazakistan. Il pontefice avrebbe voluto incontrarlo, probabilmente per perorare direttamente con lui la causa della pace in Ucraina. Xi non è stato disponibile. Quello che voleva ottenere dal Vaticano ormai l’ha avuto. E non è disposto ad altre concessioni.