Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa se lo prese, giovanissimo, nel gruppo dei «suoi» 15 agenti di sicurezza nel carcere Le Nuove di Torino per occuparsi dei detenuti delle Brigate Rosse (BR) nella seconda metà degli anni Settanta, anni di piombo tetri dentro e fuori dal «bunker» dove furono rinchiusi anche Renato Curcio e Alberto Franceschini, tra i fondatori delle BR. Di quell’arruolamento di mezzo secolo fa – Enrico Mereu, occhi chiari e sorriso aperto – parla ancora con orgoglio: «Il generale Dalla Chiesa diceva che i sardi gli risultavano essere i meno corruttibili, per questo mi volle con sé».
Lui, sardo di Nuoro, con nove fratelli e un padre con l’ammirazione per la divisa, artista è sempre stato. Ha sempre disegnato. Sui muri, sui sassi, su quel che gli capitava in mano. Guardia carceraria diventò appena maggiorenne per non dispiacere ai genitori, per mandare i soldi a casa. Oggi dice: «È quel che m’ha salvato. Sono riuscito a sopravvivere alle atrocità del carcere e a esprimere il dolore che vedevo e che mi contagiava. Eravamo tutti in galera, anche noi. Chiunque lavori “dentro” condivide la sorte di chi è carcerato. Può negarlo, comportarsi da carceriere, ma è carcerato pure lui. Avere smesso, essere uscito vivo da lì e poter scolpire il legno, che è quel che preferisco fare ora in questa fase della mia esistenza, è stato come uscire vivo dalla guerra». Mereu accarezza il legno del suo tavolo sospeso sopra lo sciabordio delle onde di Cala Oliva, nell’isola dell’Asinara, a nord della Sardegna. Il mare è ovunque nella sua casa affacciata su cielo e acqua, colma di statue intagliate al riparo dell’ombroso pergolato d’uva e d’un albero di fichi profumati.
All’Asinara è arrivato nel 1980, quando il gruppo di Dalla Chiesa fu sciolto e gli agenti sparpagliati per l’Italia. «A Torino le BR spararono ai miei colleghi Lo Russo e Cutugno. Quando perquisirono le celle dei brigatisti e dissero che in quella di Franceschini era stata trovata la lista con i nomi degli agenti da eliminare, tra cui il mio, io fui mandato qui». È stato a lungo nel carcere-bunker di Cala Oliva costruito per i capi delle BR, dove poi fu rinchiuso il capo della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo e, molti anni dopo, il capo del clan mafioso dei Corleonesi Totò Riina. Lui li ha sorvegliati entrambi. «Sono sempre stato ritrattista e paesaggista, ma ora amo scolpire il legno dei rami spiaggiati», dice Mereu. «Non taglierei mai un albero in vita mia, nemmeno se fosse bruciato. Quando lavoravo in carcere mi portavano rami grossi i colleghi delle pilotine che andavano a rispondere agli sos delle barche nelle Bocche di Bonifacio. Lì spesso trovavano tronchi in mare, li legavano con le cime alla nave pilota e me li portavano». Ora i rami se li trova da sé, tra quelli portati dalle correnti sulle coste dell’Asinara di cui è l’unico residente, l’unico a viverci anche in inverno quando qui ci sono solo capre, asinelli e il maestrale soffia forte.
«Vedo un tronco con un’immagine dentro e cerco di tirarla fuori. Di liberarla dal resto del legno. I fantasmi della prigione mi hanno accompagnato per anni. Ho visto morte, dolore, umiliazione, sofferenza. Mi ha perseguitato l’immagine di un detenuto sgozzato che ho tirato fuori da una pozza di sangue, gli avevano aperto la gola da orecchio a orecchio. Lo vidi, urlai, i colleghi non rispondevano, gli altri detenuti lo guardavano e non lo toccavano. L’ho sollevato, me lo sono messo sulle spalle e l’ho portato in infermeria. S’è salvato. Ho saputo poi che era un confidente di giustizia». Un collaboratore? «Sì, l’avevano sgozzato per quello». «Ho visto anche tante botte date dalle guardie. Quando c’erano le proteste, poi, succedeva di tutto. Una volta ero a Torino in una trattoria a pranzo con colleghi. C’era un tavolo accanto a noi con uomini che ci fissavano. Noi facevamo finta di nulla, ma sotto il tavolo stavamo già pronti a tirar fuori la pistola. Erano anni terribili quelli. Da quel tavolo si alzò il più grosso, si avvicinò, per fortuna tirò fuori subito il tesserino: Digos, polizia di Stato. Lo mise sotto il naso di un mio collega. Disse: “Mi riconosci? No? Mi hai rotto il naso e i denti. Non ti faccio niente soltanto perché sei un poveretto”. Era un infiltrato. Durante una protesta, molto tempo prima, le guardie erano entrate a menare i detenuti nella cella dove era stato messo lui. Il mio collega lo aveva preso a ginocchiate mentre lui gli diceva: “Cosa fai? Sono un collega”. Ma il pestaggio è andato avanti, il collega non gli ha creduto». La rivolta più famosa dell’Asinara però Mereu non l’ha vista. Non c’era ancora nel 1979 (annus horribilis per la Sardegna, dove vennero sequestrati tra gli altri anche Fabrizio De André e Dori Ghezzi) quando nel bunker di Fornelli i detenuti delle BR e dei Nuclei Armati Proletari riuscirono a devastare le «gabbie» con esplosivo al plastico nascosto nelle macchinette del caffè, le classiche moka. Fu una rivolta clamorosa che portò al trasferimento altrove dei detenuti brigatisti. «Sono arrivato subito dopo la “Protesta delle caffettiere”, m’hanno mandato qui proprio perché le BR non c’erano più. È stata durissima lo stesso. Il migliore di tutti era il camorrista Raffaele Cutolo. Lo chiamavano “il professore”. Ci spiegava sempre tutto, ci difendeva col direttore del carcere. Gli diceva: dategli almeno qualcosa per coprirsi quando diluvia. Sono sempre zuppi quando piove».
Mereu si illumina. «Nelle varie prigioni in cui sono stato in missione, perché ci mandavano a volte per mesi in posti nel Continente, ho incontrato anche detenuti con grande talento. A Biella ero riuscito ad avviare un corso di pittura. Uno era dentro per traffico di droga, ora dipinge a Dubai. Un altro aveva rapinato banche. Mi ha telefonato da libero anni fa, sta in California. Mi ha detto: sai che il mio quadro che vale di meno me lo comprano a 50mila dollari?». L’ex carceriere ora mostra come usare mazzuolo e sgorbia a ragazzi che arrivano sull’isola e fa arteterapia con bambini autistici. Lo sguardo corre sul tavolo dell’atelier all’aperto su cui sono esposte alcune sculture. «La mia preferita è questa», dice. «È un abbraccio».