Le esplosioni nelle chiese e negli alberghi la mattina di Pasqua. Lasciando dietro di sé 253 morti e altre centinaia di feriti nello Sri Lanka, la «lacrima dell’India», trasformata dallo spiraglio di pace vissuto in questi ultimi anni in una meta turistica emergente. Ancora una volta è stato il dato di fatto della persecuzione contro i cristiani a segnare la Pasqua 2019, aggiungendo una nuova stazione alla Via Dolorosa delle stragi che hanno colpito in questi ultimi anni le chiese di ogni confessione.
Quanti sono i cristiani nel mirino nel mondo oggi? Uno degli osservatori più citati in proposito è il monitoraggio compiuto da Open Doors, centro studi di matrice evangelica che dagli Stati Uniti ogni anno diffonde la lista dei Paesi dove è più rischioso essere cristiani. Complessivamente sarebbero 245 milioni i cristiani che vivono in realtà ritenute a rischio, il che significa grosso modo 1 cristiano ogni 10. Ancora più impressionante è il dato sui cristiani uccisi a causa della loro fede: Open Doors nel 2018 ne ha censiti 4305, dei quali ben 3731 nella sola Nigeria. Va aggiunto che tra i dieci Paesi del mondo classificati come più pericolosi per i cristiani accanto a otto Paesi a maggioranza islamica figurano anche il regime totalitario della Corea del Nord e l’India del nazionalismo indù, dove le violenze dei gruppi fondamentalisti contro i cristiani sono più nascoste ma non meno gravi.
Al di là delle classifiche l’aumento delle persecuzioni contro i cristiani è un fatto innegabile; e da questo punto di vista i proclami dello Stato Islamico hanno segnato un vero e proprio spartiacque. Due immagini sono rimaste impresse nella memoria: la prima è la lettera «nur» – l’iniziale araba della parola «nazareni» – impressa sulle porte delle case dei cristiani di Mosul per forzarli a un esodo di massa nell’arco di una sola notte nell’estate del 2014. La seconda sono le tute arancioni dei 21 operai copti sgozzati sulle spiagge della Libia nel febbraio 2015 in un macabro rituale mediatico rilanciato dalla propaganda digitale jihadista.
Non l’ha certo iniziata l’Isis la persecuzione; ma il sedicente califfato ha comunque segnato un salto di qualità nella connotazione del fenomeno. Non è una determinata politica, ma il concetto stesso di diversità religiosa oggi nel mirino dell’internazionale del terrore. Se prima erano sostanzialmente i leader politici dell’Occidente a essere additati come «crociati», adesso la furia omicida si accanisce sempre di più contro le comunità cristiane, contro i loro luoghi di culto, contro i loro simboli. La sequenza legata alle celebrazioni della Pasqua è impressionante: nel 2014 Boko Haram ha colpito le chiese in Nigeria; nel Giovedì Santo del 2015 gli al Shabaab somali hanno compiuto la strage nell’università di Garissa in Kenya; nel 2016 è stata la volta della Pasqua di sangue a Lahore in Pakistan; nel 2017 le stragi nella domenica delle Palme in Egitto.
Ora tocca allo Sri Lanka, Paese complesso, segnato da una lunga e sanguinosa guerra civile tra tamil e sinhala, trascinatasi fino a dieci anni fa. Conflitto rispetto alle cui dinamiche era del tutto estraneo l’odio religioso dei musulmani nei confronti dei cristiani. Anzi: essendo entrambi i gruppi minoranze in un contesto a maggioranza buddhista si erano trovati spesso dalla stessa parte, come del resto accade in India.
Che cosa sta succedendo allora? E perché nonostante l’apparente sconfitta militare dello Stato Islamico la persecuzione nei confronti dei cristiani continua? La «rivendicazione» che legherebbe le stragi nello Sri Lanka a quella compiuta da un suprematista bianco nelle moschee di Christchurch in Nuova Zelanda non deve ingannare: il rapporto di causa ed effetto è solo un gioco mediatico. L’estremismo jihadista ha bisogno delle stragi; e le compie nei Paesi dell’Asia e dell’Africa perché sono il terreno oggi più congeniale a queste formazioni. A portare i terroristi a convergere lì non è solo il fatto che rispetto all’Europa o agli Stati Uniti in certi Paesi è più facile bucare i sistemi di sicurezza. C’è anche un ragionamento di geopolitica: è in Asia e in Africa che oggi si gioca la partita vera dell’identità religiosa.
Il baricentro del cristianesimo – per ragioni demografiche, ma non solo – si sta spostando lontano dalla Vecchia Europa. Ma anche l’islam guarda a Sud e a Oriente; salafiti e wahhabiti, le correnti più intransigenti, mirano a cancellare le specificità dei contesti africani o asiatici, l’attitudine al dialogo dei musulmani locali, per intruppare tutti in un disegno in cui non c’è spazio per le altre religioni. In questo sforzo sanno di poter contare sul fatto che una globalizzazione spinta unicamente da logiche economiche in molte parti del mondo ha fatto saltare equilibri delicati, esasperando conflittualità sociali che sono andate ad accentuare le tensioni tra popoli e religioni.
In tutto questo i cristiani sono l’anello più debole. Perché la loro è una presenza globale: non c’è praticamente posto al mondo dove oggi non ci sia almeno una chiesa. Ma in molti contesti è una presenza fortemente minoritaria (in Asia meno del 3% della popolazione); e spesso avvertita dagli altri gruppi anche come straniera, il che nell’era del ritorno delle identità vuol dire pure pericolosa.
Quale risposta possibile allora a queste persecuzioni? Al di là delle reazioni emotive i muscoli servono a poco: l’unica strada realistica è lavorare per una cultura della biodiversità religiosa, che dia un’anima alla globalizzazione. Si tratta di quanto papa Francesco ha tentato di fare ad Abu Dhabi con la dichiarazione comune firmata in febbraio con l’imam al Tayyeb dell’università di al Azhar, il più importante centro dottrinale sunnita. Un testo in cui il passaggio chiave politico è il riconoscimento della centralità della persona e dei suoi diritti, ma che ha bisogno anche di una cornice teologica capace di pensare un futuro insieme tra uomini di religioni diverse. La strada resta lunga e difficile; ma l’alternativa è solo un cumulo di macerie che finirebbe per travolgere ogni idea di religione.