In Asia c’è bisogno d’America

Viaggio di Trump – L’avvicinamento Usa-Vietnam, divenuto via via più caloroso da Clinton a Bush a Obama, è l’esempio più illuminante per capire la volontà di contenimento dell’espansionismo cinese nella regione
/ 20.11.2017
di Federico Rampini

Comincio con una notazione personale questo secondo diario di viaggio dal tour asiatico che ho fatto al seguito di Donald Trump (la prima puntata, dalla Cina, l’avete potuta leggere qui la settimana scorsa). In quella lunga missione internazionale ero l’unico giornalista italiano a viaggiare con la Casa Bianca. Solo, fra i colleghi americani e asiatici; qualche tedesco, pochi inglesi. Mi era già successo in primavera quando lo seguii in Arabia saudita e Israele. Un tempo la comitiva dei giornalisti accreditati alla Casa Bianca che seguivano i presidenti nelle missioni internazionali, includeva tre o quattro giornalisti italiani. Sono un superstite. Per quanto tempo ancora? Non c’entrano Trump e la sua scarsa popolarità. La decimazione dei giornalisti che viaggiano era cominciata da anni, sotto Obama. Via via ho visto sparire da questi viaggi anche i colleghi di «Le Monde», «El País», «The Independent» e altri quotidiani europei che un tempo erano una presenza fissa. Giornali che in passato facevano dell’informazione internazionale un punto di forza, ora mancano all’appello.

È una triste questione di soldi. Mandare un inviato all’estero costa. Se poi deve sottostare ai diktat della Casa Bianca, che crea corsie preferenziali per chi viaggia con i loro mezzi, la spesa sale. Perché ai giornali fanno pagare i viaggi dello staff della Casa Bianca e degli uomini del Secret Service che ci scortano, ci proteggono e/o ci sorvegliano. Questo, nelle difficoltà economiche in cui la stampa si dibatte, crea un incentivo perverso. La tentazione di seguire questi eventi da lontano. Restando in redazione, seduti a una scrivania, gli occhi incollati allo schermo di un pc, a leggere agenzie, comunicati, a guardare i tg. È una strada inclinata. Porta in un luogo molto pericoloso.

Il giornalismo fatto così, come può difendersi dall’assalto dei blogger, dei tuttologi improvvisati sui social media, dei commentatori in pigiama che rovesciano le loro teorie attingendo a tutto lo sciocchezzaio della Rete? Cosa rimane della professionalità di un giornalista se non vai più a vedere le cose, a esplorare paesi lontani, a documentarti sull’agenda dei governi stranieri, sulle tensioni tra i popoli, le linee di frattura tra le civiltà e le egemonie imperiali? Una sala stampa che si svuota riguarda tutti i cittadini. Tanto più quando i summit tra i potenti mettono in scena dei personaggi che i giornalisti li odiano e li boicottano. A Trump non importa nulla di avere degli inviati al seguito. Xi Jinping, Putin, Erdogan o Duterte, ai loro giornalisti hanno già messo la museruola.

Venendo al viaggio, le ultime tappe hanno avuto meno risonanza perché il super-summit era avvenuto a Pechino. Però quel che è accaduto in Vietnam e nelle Filippine è importante. Fa effetto sentir risuonare lo slogan «America First» in Vietnam, e in una località come Danang martoriata dalla guerra: gli americani fino al 1975 vi fecero un uso massiccio di defolianti chimici. Il Vietnam di oggi ha voltato pagina, quest’anno ha ospitato il vertice dell’Apec. Cioè quell’associazione Asia-Pacifico all’interno della quale nacque l’ultimo grande trattato multilaterale di libero scambio, il Tpp voluto da Obama. Trump ha confermato che lui quella globalizzazione non la vuole più. Il Tpp andrà avanti con 11 paesi senza l’America, la leadership di fatto viene assunta dal Giappone di Shinzo Abe (la Cina non è mai stata inclusa nel Tpp). Ripetendo il suo slogan elettorale «America First», Trump ha indicato che difenderà più duramente dei suoi predecessori gli interessi dell’industria americana e dei lavoratori.

In questo senso descriverlo come isolato è corretto e fuorviante al tempo stesso: quando dice queste cose Trump si isola dal pensiero unico neoliberista e da un pezzo della comunità internazionale; non si isola dall’opinione pubblica americana, non dai metalmeccanici che lo hanno votato. Al funerale di una globalizzazione che fu per mezzo secolo a guida americana, a Danang si è presentato Xi Jinping con la sua alternativa. È il globalismo alla cinese, che lui predica presentandosi come il nuovo alfiere delle frontiere aperte. Facile descrivere la Cina come la nuova potenza che ha una visione multilaterale e un progetto universale, mentre l’America si ritira nel protezionismo. Ma l’elogio della globalizzazione che Xi è andato a fare in Vietnam, suona come l’apologia di una dieta carnivora da parte di una tigre. La sua Cina sta nel club dei vincitori, l’Occidente no.

Dite «ambasciata americana in Vietnam» e riaffiora il ricordo di un’immagine tragica, una foto del 29 aprile 1975 immortala un elicottero che dal tetto porta via gli ultimi addetti alla sede diplomatica, in un fuggi fuggi angosciante, coi dipendenti sudvietnamiti che tentano disperatamente di salire sul velivolo nell’evacuazione finale. La città era Saigon, caduta in mano ai nordvietnamiti. Oggi l’ambasciata Usa si trova a Hanoi, in quella che 42 anni fa era la «metà nemica» del Paese. E ha così tanto personale che lo spazio non le basta più. In occasione della visita di Trump i due paesi hanno firmato un accordo che consente agli americani di comprare un nuovo terreno, dove sorgerà una mega-ambasciata nuova, per gestire il boom nelle relazioni bilaterali.

È stato firmato un accordo di cooperazione militare. La U.S. Coast Guard ha consegnato la prima nave-vedetta alla marina militare di Hanoi. È l’occasione per misurare quanto in Asia sia forte il bisogno di un «amico americano» per bilanciare e contenere la Cina. Il caso del Vietnam è eclatante per la rapidità con cui questo paese martoriato dalla guerra decise di riconciliarsi con l’America per proteggersi dalla minaccia più vicina e più incombente. C’è una logica geostrategica stringente e prescinde da chi stia alla Casa Bianca. Trump eredita un’evoluzione che dura da quattro Amministrazioni. L’avvicinamento Vietnam-Usa è diventato via via più caloroso da Clinton a Bush a Obama.

La complessa relazione tra Cina e Vietnam aiuta a capire il concetto dell’ «Indo-Pacifico» di cui si è discusso durante questo viaggio. Lo ha suggerito il premier giapponese Shinzo Abe: fautore di un cordone di democrazie che vada dall’India al Giappone, dall’Australia all’America, per contenere l’espansionismo cinese. Anni addietro era stato approfondito da uno dei più autorevoli esperti geopolitici americani, Robert Kaplan. Che nel suo saggio Asia’s Cauldron ricorda come lo stesso Vietnam da millenni ospita al proprio interno due civiltà, una di ascendenza indiana e l’altra cinese. Ma è la Cina il vicino che ripetutamente ha invaso il Vietnam: la guerra con gli Usa è poca cosa in confronto alla catena secolare di conflitti coi cinesi (l’ultimo nel 1979 con l’invasione «punitiva» ordinata da Deng Xiaoping). Il concetto di area indo-pacifica vuole contrastare una narrazione originata Pechino, che vede i mari limitrofi e il sud-est asiatico come «naturale sfera d’influenza» di Pechino.

Ultima tappa, Manila. Poco più di un anno fa, Barack Obama osò esortare l’Uomo Forte delle Filippine a un maggiore rispetto dei diritti umani, avanzando riserve sugli «squadroni della morte» usati nella lotta alla droga. Rodrigo Duterte reagì dando al presidente degli Stati Uniti del «figlio di p…» in pubblico. Acqua passata. Con Trump è sbocciato un idillio. Già ad aprile in una memorabile telefonata Trump elogiò Duterte per «l’incredibile lavoro svolto contro la droga». Dietro il feeling Trump-Duterte affiora un fenomeno che non è affatto limitato alle Filippine. È il modello del «benessere illiberale» che trionfa in quest’area del mondo: la più dinamica in assoluto, con velocità di crescita economica in certi casi perfino superiore alla Cina. Lo sviluppo senza i diritti umani. La mappa geografica delle democrazie, dopo essersi allargata dagli anni Settanta in poi, ha cominciato a retrocedere di recente.

Trump non c’entra, lui arriva dopo che il fenomeno si è già manifestato, si limita ad assecondarlo a posteriori, con una politica estera dalla quale i diritti umani sono vistosamente assenti. Ma il fallimento di alcuni esperimenti democratici risale agli anni di Obama. In coincidenza con delle perfomance economiche di tutto rispetto. Perfino i paesi che sembravano più legati all’America, candidati a consolidare qualche forma di democrazia liberale, hanno imboccato il cammino inverso. In Thailandia i militari non mollano la presa tre anni dopo il golpe. Singapore continua ad essere governata da un paternalismo autoritario. Perfino l’Indonesia è in una fase di involuzione: il modello democratico che fu decantato da Obama vacilla sotto la pressione dei fondamentalisti islamici. La delusione più grande è il Myanmar, dove Aung San Suu Kyi è accusata di avallare le persecuzioni delle minoranze etniche, in particolare i Rohingya musulmani. La «via illiberale allo sviluppo» è un brutale risveglio, dopo l’ingenuo ottimismo occidentale in voga ancora pochi anni fa, sul nesso tra globalizzazione e libertà. 

Dove e quando

Federico e Costanza Rampini terranno la conferenza Dialogo fra padre e figlia sulla scienza, la politica e la religione dell’India, venerdì 24 novembre alle 18.15 al LAC di Lugano (Piazza Bernardino Luini 6) nell’ambito del progetto FOCUS India.