Il Venezuela sprofonda nel caos

Caracas – Il presidente Maduro aveva esautorato il Parlamento (che non controlla) con una decisione del Tribunale supremo (che controlla). Un golpe giudiziario fatto rientrare quasi immediatamente ma con due fazioni di militari sullo sfondo che si contendono il potere
/ 24.04.2017
di Angela Nocioni

C’è una guerra in corso tra fazioni delle forze armate in Venezuela. È una guerra sotterranea, almeno per ora, in cui nessuno dei due principali gruppi di potere in lotta prende il sopravvento sull’altro. Questo spiega, in parte, l’apparentemente incomprensibile capacità del governo del presidente Nicolás Maduro di sopravvivere sull’orlo dell’abisso economico e sociale del Paese. Con una inflazione del 720% nel 2017, prevista oltre il 2000% per il 2018 secondo gli ultimi dati del Fondo monetario internazionale. Il Venezuela è completamente in mano ai militari. Controllano quel che rimane dell’apparato produttivo, a cominciare dall’industria pubblica del petrolio, Pdvsa, e si occupano della distribuzione dei prodotti di consumo. Sono quasi tutti occupati da militari i posti di comando politico, compresi i vertici dei governi degli Stati più importanti (il Venezuela ha una struttura statale federale).

La crepa nell’apparente compattezza che le forze armate hanno sempre presentato all’esterno si è intravista per la prima volta la notte delle ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento, il 6 dicembre del 2015, che hanno dato vita a un permanente braccio di ferro tra il parlamento e il capo dello Stato. Passavano le ore e non uscivano i risultati del voto. Correvano voci di golpe in corso. La tensione era altissima. Fu rotta dall’inusuale apparizione televisiva del ministro della Difesa, il generale Vladimir Padrino López, circondato dagli alti vertici militari. Pronunciò parole vaghe il generale, con faccia tetra. 

Disse, in sostanza, che le forze armate avrebbero protetto il risultato elettorale. Tutti sospettarono che i risultati non stavano uscendo perché il governo non sapeva come gestire la sconfitta che, a ragione, si pensava si stesse profilando. Qualcuno, nell’appartato di potere, era forse determinato a manipolare l’esito delle votazioni? Una versione mai confermata dei fatti oscuri di quella notte sostiene che il numero due del regime, Diosdado Cabello – molto legato alla parte più corrotta dell’esercito e referente politico della «boliborghesia», la borghesia bolivariana, ossia la classe sociale arricchitasi all’ombra del chavismo attraverso mille traffici sui quali indaga da anni anche la Dea statunitense (l’antidroga) – stesse tentando di imporre una frode elettorale quella sera e che i militari non lo permisero. Fatto sta che alla fine i risultati uscirono: vittoria dell’opposizione con una maggioranza schiacciante. Il Parlamento era ormai fuori dal controllo del chavismo.

La guerra tra Cabello e il ministro Padrino López è tornata in superficie il 31 marzo scorso, quando il presidente del Tribunal Supremo de Justicia (Tsj), Maikel Moreno, a capo di un organo interamente controllato dal governo, ha annunciato di aver esautorato il Parlamento (in mano all’opposizione antichavista) dalle sue funzioni togliendo ai deputati l’immunità e ampliando ulteriormente i poteri eccezionali del capo dello Stato Nicolás Maduro.

Si è trattato di un golpe giudiziario, anche se nella sostanza era un golpe vero e proprio, per il momento senza carri armati nelle strade. È successo però che a sorpresa, il giorno dopo, Luisa Ortega, la «Fiscal general» della Repubblica (dipendente dal Ministero Pubblico, ma nominata dal Parlamento, figura di garanzia istituzionale con, in realtà, grandi poteri effettivi) chavista di ferro, tanto di ferro da aver spedito in galera il capo dell’opposizione Leopoldo Lopez con accuse debolissime, ha denunciato pubblicamente di considerare la decisione del Tribunale Supremo una «rottura dell’ordine costituzionale». Ventiquattro ore dopo il Tribunale ha fatto un passo indietro e ha ritirato la sentenza che esautorava il Parlamento. Golpe fallito nel giro di un fine settimana ma niente in realtà è davvero risolto.

I due grandi gruppi che si contendono la guida del governo sono capeggiati uno da Maduro, sua moglie Cilia Flores, con Diosdado Cabello che garantisce l’appoggio di un’ala militare e l’altro dal generale Porfirio Lopez, sempre più vicino a Luisa Ortega, che ha fatto il suo outing politico con la sconfessione del tentato golpe del Tribunale supremo. Se Luisa Ortega avesse fatto quella dichiarazione frontale contro il Tsj senza avere il ministro della Difesa e il suo gruppo di generali alle spalle sarebbe finita dritta in carcere con qualsiasi accusa senza bisogno di prove, come accade ormai in Venezuela da molti anni. 

Luisa Ortega era inizialmente una fedelissima di Cabello. Fu lui a garantire la sua ascesa politica fino alla nomina al delicato ruolo di Fiscal general. Ora invece punta ad essere la costola del chavismo pronta a staccarsi dal corpo della Rivoluzione fallita, non appena la Rivoluzione sarà sepolta. L’obiettivo, ovviamente, è sopravvivere alla fine dell’era chavista e riciclarsi nel Venezuela del futuro.

Tutto ciò avviene mentre l’economia sprofonda. Più del 78 per cento dei venezuelani non vuole più saperne di questo governo, ma l’esercito appoggia il presidente e le grandi istituzioni come la Corte suprema sono nelle mani degli uomini fedeli al presidente. Il salario minimo supera di poco i 40’000 bolivares, l’equivalente di dieci dollari. Non è possibile vivere in moneta nazionale, i bolivares, la moneta in cui vengono pagati gli stipendi, perché la maggior parte dei beni anche di prima necessità si può comprare solo al mercato nero, dove la divisa di riferimento sono sempre e solo i dollari. Gli amatissimi dollari statunitensi, la «moneda del enemigo».