La crisi sanitaria è ufficialmente conclusa, ma ci vorrà tempo per comprendere fino a che punto ci abbia cambiato. Può darsi che gli effetti virtuosi che auspicavamo stiano lavorando nel profondo, nonostante un generale senso di frustrazione per la velocità con cui siamo tornati al business as usual. Interessante opinione è quella della scrittrice Michela Murgia: sarà la letteratura degli anni a venire, più della memoria individuale, a riconciliarci con il trauma che abbiamo vissuto e la sua eredità, nelle diverse sfumature generazionali. Quello con cui già dobbiamo misurarci, invece, è la rivoluzione del modo di lavorare: il tempo che trascorriamo in remoto è stabilmente aumentato, il telelavoro piace ed è qui per restare. La richiesta di lavoro da remoto e ibrido è in crescita esponenziale e i datori di lavoro – volenti o nolenti – si stanno adeguando, se non altro per rispondere ai bisogni dettati dalla contingenza demografica: si sa, la concezione di qualità di vita dei nativi digitali non prevede la presenza in ufficio otto ore al giorno.
Si stima che l’accelerazione indotta dall’emergenza sanitaria abbia concentrato in 3 anni un’evoluzione, che, in tempi normali, ne avrebbe richiesto 40. Senza la pandemia non sarebbe stato possibile condurre ciò che è stato definito un grande esperimento globale sulla flessibilità, di spazio e tempo, dei modelli lavorativi; né avremmo potuto gettare uno sguardo così lontano, illuminando un futuro non ancora arrivato: un’occasione decisamente fortunata e inconsueta per l’umanità. Ora, finita l’emergenza, è come se ci trovassimo sul set capovolto di «Ritorno al futuro». Infatti, adeguare l’organizzazione del lavoro sulla base di un’innovazione tecnologica così repentina non garantisce che sia avvenuta, nel contempo, un corrispondente avanzamento della cultura aziendale e sociale; né che siano stati pensati e introdotti i necessari correttivi per evitare che si traduca in flessibilità per pochi e fragilizzazione per molti.
Un caso eclatante riguarda la questione di genere. Le indagini svolte durante la pandemia rilevano che uomini e donne non hanno beneficiato allo stesso modo del telelavoro e pensarlo come soluzione ai problemi di conciliabilità potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio per le lavoratrici. Intanto proprio perché massicciamente impiegate in ambiti e mansioni che prevedono il contatto con il pubblico e la presenza fisica, le donne usufruiscono meno del lavoro a distanza. Oltretutto, commercio, accoglienza turistica e cura personale sono i settori che hanno subito le chiusure più drastiche, con ovvie ripercussioni sui posti di lavoro femminili, ciò che ha portato a ribattezzare she-cession (she in inglese significa lei) la recessione da Covid. Ma anche quando le coppie hanno avuto accesso al telelavoro in modo paritario, l’accresciuto carico derivante da scuole chiuse, attività extrascolastiche sospese, preparazione dei pasti, cura degli anziani e cosi via si è più frequentemente concentrato sulle donne.
Nei casi in cui entrambi i genitori hanno aumentato le ore dedicate al lavoro domestico e di cura, le madri hanno lavorato in presenza di un figlio più spesso dei padri. Di converso, la probabilità di optare con successo per il lavoro da remoto è stata del 50% superiore per i percettori di salari elevati, più frequentemente uomini, colletti bianchi dei settori più avanzati e remunerativi, che godono anche di situazioni private particolarmente favorevoli: sono di razza bianca, hanno un buon livello di istruzione, non giovani, in buona salute, accedono con più facilità a strumenti e infrastruttura tecnologica, vivono in buoni spazi residenziali e in area urbana. Sono solo alcune delle evidenze raccolte dai molteplici studi condotti a varie riprese e su vari campioni, anche geografici, durante il lockdown, rilevamenti che possiamo molto facilmente riportare alla nostra esperienza anedottica.
La professoressa Tammy Katsabian ne ha ricavato un’interessante riflessione: la commistione tra sfera privata e sfera pubblica del tempo e dello spazio, tipica del lavoro da casa, beneficia maggiormente chi può contare su condizioni private migliori; non si tratta delle donne, per due ordini di motivi (The Work Life Virus: working from home and its implications for the gender gap and questions of intersectionality, 2022). Intanto, nella nostra cultura, la donna è la prima responsabile della cura della casa e della famiglia, ciò che produce una serie di ostacoli strutturali alla sua realizzazione in qualsiasi altro ambito che non sia quello privato. Quando i contorni dello spazio pubblico così faticosamente conquistato si fanno meno nitidi, come nel lavoro da casa, ecco che tutte le aspettative e le pressioni sociali su chi debba occuparsi di cosa nel privato si impongono, come testimoniano le esperienze Covid, costringendo le donne ad un ulteriore e del tutto iniquo sforzo per non compromettere le performance professionali.
C’è poi il tema dell’intersezionalità, intesa come sovrapposizione di diverse identità sociali che causano una moltiplicazione di discriminazioni. Se il genere determina uno svantaggio di partenza nel caso del telelavoro, come si è visto, per le donne appartenenti ai gruppi sociodemografici più fragili lo svantaggio di genere si cumula agli altri. Senza scomodare etnia o disabilità, nel caso della Svizzera possiamo riferirci alla fatica delle madri single o alle cause che determinano una così marcata concentrazione di lavoratrici nei settori scarsamente remunerati.
Katsabian descrive il peso della conciliabilità che grava sulle donne come una sorta di virus che potrebbe diventare mortale lavorando da casa. Eppure alle lavoratrici il telelavoro piace. Da una parte perché la flessibilità spazio-tempo semplifica la gestione del doppio carico che, del resto, pre-esiste e resiste, indipendentemente dalla decisione di optare per questo modello lavorativo. Dall’altra, tristemente, perché per molte rappresenta un riparo dalle cosiddette microaggressioni del luogo di lavoro, quei bias che minano la sicurezza psicologica e influenzano la produttività. Una circostanza che McKinsey, in un’indagine del 2022 (Women in the worplace 2022, McKinsey &Company – Lean In), ha censito come scelta alternativa alle dimissioni femminili, mai così numerose come nel periodo Covid: un modo di sfuggire alla cultura aziendale tossica, ma con inevitabile effetto boomerang sulla carriera, una vera e propria rinuncia alle proprie ambizioni. Ma sarebbe davvero assurdo rinunciare ad uno strumento così promettente e in grado di migliorare la qualità di vita dell’umanità solo perché le condizioni culturali non sono mature. Al contrario, bisogna accelerare su questo fronte, anche in previsione del fatto che la tecnologia continuerà la sua corsa, senza aspettare. Si tratta allora di affrettarsi a correggere «l’errore di Aristotele», inteso come dicotomia tra uomo animale politico e donna animale domestico, ben illustrato nel libro della filosofa Giulia Sissa. Dobbiamo, cioè, ripensare a come affrontare la fatica della flessibilità indotta dall’innovazione tecnologica in modo da non inasprire le diseguaglianze di genere.
Che di fatica si tratti, lo sostiene anche Travaille Suisse, che propone di allungare a sei settimane le vacanze per tutti i dipendenti. Ma occorre prendere atto che la tradizionale ripartizione dei ruoli domestici e di cura produce una diversa fatica per lavoratori e lavoratrici, a svantaggio di queste ultime; e che le iniquità professionali che ne conseguono sono acuite, non ridotte, dalla digitalizzazione, telelavoro compreso. La responsabilità di attenuare queste iniquità va condivisa in modo organico tra lo Stato e i datori di lavoro, attraverso politiche familiari e aziendali mirate. Vedremo in una seconda puntata quali potrebbero essere.
Il telelavoro non favorisce le donne
Secondo gli ultimi studi, gli uomini hanno il 50% di probabilità in più di optare con successo per lo smart working
/ 29.05.2023
di Marialuisa Parodi
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