Ho vinto, ho stravinto. Questo è il bilancio che Donald Trump ha tracciato del «suo» vertice Nato. Il «suo» vertice nel senso che così se lo è raffigurato lui e lo ha raccontato. Le versioni degli altri partecipanti non concordano affatto. Il presidente degli Stati Uniti è certo di avere incassato dei sostanziali aumenti nelle spese militari dei paesi alleati, addirittura fino al 4% dei rispettivi Pil cioè un raddoppio degli impegni precedenti (peraltro disattesi dalla maggioranza). Trump sbandiera questo magnifico risultato che lo distinguerebbe dai suoi predecessori, incapaci di ottenere alcunché. Né Angela Merkel né Emmanuel Macron né Giuseppe Conte hanno confermato questa versione dei fatti, anzi l’hanno smentita in modo più o meno esplicito. Lo stesso segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ribadito che l’impegno di spesa per la difesa comune punta a un traguardo del 2% del Pil, cioè quello che fu preso dagli alleati nel 2014 quando era presidente Barack Obama.
Ma che importa? Il film che ho visto in scena a Bruxelles mi ha ricordato quello che avevo seguito un mese prima a Singapore. Anche là Trump si era gloriato per aver persuaso Kim Jong-un a denuclearizzare. Nulla nelle parole del dittatore nordcoreano confermava lo smantellamento unilaterale dell’arsenale atomico e missilistico; da allora sembra anzi che militari e scienziati di Pyongyang abbiano ripreso a lavorare sul programma nucleare (lo dice la Cia). Ma Trump fa finta di niente, proclamare vittoria e voltar pagina è una sua specialità. A prescindere dai fatti.
Del vertice Nato resteranno comunque altri ricordi, per lo più inquietanti e forse perfino traumatizzanti per gli alleati europei. Germania in testa. Mai un presidente americano aveva attaccato così duramente un paese europeo, dalla fine della Seconda guerra mondiale. E come gli accade spesso, Trump usa verità scomode, maneggiandole come armi di distruzione. «La Germania – ha detto il presidente americano – è prigioniera della Russia. I tedeschi hanno chiuso le loro miniere di carbone, hanno rinunciato al nucleare, alla fine dipenderanno per il 60-70% dal gas naturale russo. Pagano miliardi ai russi. Un ex cancelliere tedesco è il capo di quell’azienda del gas. Noi proteggiamo la Germania, proteggiamo la Francia, e loro vanno a costruire il gasdotto e riempiono di soldi la Russia».
Sullo sfondo c’è anche l’altro contenzioso con Berlino: l’enorme attivo commerciale, che non accenna a ridursi, per il presidente americano è una ragione sufficiente a equiparare tranquillamente la Germania alla Cina. C’è del vero nel suo sfogo e alcuni di questi temi furono sollevati – con più cortesia – da Barack Obama. Il caso dell’ex cancelliere Gerhard Schroeder stipendiato dai russi come capo di una delle loro aziende energetiche, è un immane conflitto d’interessi e una macchia indelebile per una classe politica che pretende di dare lezioni di moralità al resto d’Europa. L’eccessiva dipendenza energetica dalla Russia è imprudente, ne sanno qualcosa polacchi e ucraini. Vivere in sicurezza sotto l’ombrello nucleare Usa e con 35’000 soldati americani contribuendo poco alle spese per la difesa, è irresponsabile. Infine – anche se qui la Nato non c’entra – lo stesso Obama accusava la Merkel per quegli attivi commerciali che sono il risultato di politiche mercantiliste, di un’austerity nefasta, con effetti depressivi sulla crescita degli altri paesi.
Ma come si fa a convincere l’opinione pubblica europea – largamente ostile alle spese militari e afflitta da tagli al Welfare – che bisogna cambiare rotta? In molti paesi per salire al 2% del Pil di spese militari (non parliamo del 4%) ci vorrebbe uno sforzo di riarmo enorme per le finanze pubbliche e per i contribuenti. In nome di cosa? Un’alleanza come la Nato va sostenuta dimostrando ai popoli che è necessaria, vitale. Trump non fa mai alcun accenno ad una comunità di valori e di ideali. Né ha mai spiegato quali pericoli concreti provengono da un leader russo nazionalista, revanscista, in cerca di rivalse sull’Occidente. A parte i sospetti sul ruolo di Mosca nel favorire la sua elezione, è Trump ad avere incoraggiato l’espansionismo russo in Medio Oriente, dalla Siria all’Iran. Il risultato della sua retorica aggressiva verso gli europei potrebbe essere l’opposto di quello che desidera: un’accelerazione dello scivolamento a Est degli equilibri geopolitici, un «liberi tutti» che rende l’Europa ancora più divisa, debole e ricattabile.
Chi lo descrive come isolato ci pensi bene. Dopo Bruxelles, le tappe di Londra e Helsinki servivano a correggere il tiro. In apparenza lo spettacolo che va in scena è «The Donald contro tutti», l’isolazionista furibondo che maltratta gli alleati europei, e viene accolto da manifestazioni di protesta. La realtà è diversa e di giorno in giorno si colora di trumpismo. La geografia politica europea continua a scivolare nella direzione congeniale al presidente americano.
Le tre tappe Bruxelles-Londra-Helsinki disegnano una geografia molto particolare, simbolicamente illustrano un viaggio iniziato dal mondo a noi noto (l’Europa delle alleanze imperniate su Ue e Nato), poi spostatosi nella capitale di Brexit in piena ribellione degli ultrà anti-europei, per concludersi nell’incontro con il vero beneficiario di questa dissoluzione, cioè Vladimir Putin. Calpestando una tradizione americana che ebbe inizio con Franklin Roosevelt, ma fu onorata dal repubblicano Ronald Reagan, Trump ignora i valori comuni dell’Occidente e trasforma la Nato in una partita contabile. L’Uomo del Caos si gode lo spettacolo della turbolenza politica inglese: non ha mai apprezzato la moderazione di Theresa May. Ha un feeling invece per Boris Johnson, il suo allievo e ammiratore che esce sbattendo la porta dal governo di Sua Maestà, e invoca un hard-Brexit dirompente. Bisogna ricordare quel che disse Johnson un mese fa per attaccare lo stile di negoziato morbido della May con Bruxelles: «Ammiro sempre di più Trump. C’è del metodo nella sua follia. Immaginatevi come Trump condurebbe il negoziato Brexit. Andrebbe giù duro, romperebbe tutto, ci sarebbe ogni sorta di caos. Tutti gli darebbero del pazzo. Ma così otterrebbe qualcosa».
Di giorno in giorno cresce la schiera dei politici europei che come Boris Johnson ammirano lo stile e la sostanza del trumpismo. Chi vuole trasformare il partito conservatore britannico in una forza estremista ha il percorso già tracciato, è la metamorfosi dei repubblicani Usa. Le cause e le radici sociali sono note, il voto Brexit fu il segnale premonitore dell’elezione di Trump, dietro il sovranismo in ascesa ci sono ceti sociali impoveriti dalla globalizzazione, impauriti dall’immigrazione, sulle due sponde dell’Atlantico. Alla base ci sono risentimenti legittimi. Ma lo sbocco geopolitico, con l’indebolimento dell’Ue e della Nato, è tutto a favore del Re di Russia. Guai a sottovalutare l’aria del tempo che soffia impetuosa. A casa sua, Trump nei sondaggi risale. Ha superato tra gli elettori americani il livello di popolarità che Macron riscuote tra i francesi (ormai solo il 38%). Quel 90% di repubblicani che si compattano attorno a lui, sono felici della versione che Trump racconta dei suoi viaggi all’estero: Veni, Vidi, Vici. I dettagli su quel che accade veramente sono irrilevanti, la realtà è ormai un optional.