Un «errore molto grande», secondo Recep Tayyip Erdogan, quello di Kemal Atatürk che con un decreto del 1934 trasformò in museo la grandiosa meraviglia bizantina di Santa Sofia. Per quasi mille anni, fra il 6° e il 15° secolo, fu una basilica cristiana, sede del patriarcato di Costantinopoli. Nel 1453, quando Maometto II conquistò la seconda Roma, la chiesa diventò moschea. E tale rimase fino a quando cadde l’impero ottomano e ciò che ne restava si trasformò in una Repubblica laica. Il presidente che prese il posto del sultano, Atatürk appunto, laicizzò anche la moschea che diventò un museo, magnifica testimonianza del passato e principale attrazione di Istanbul.
È proprio questo il grande errore che Erdogan imputa al suo lontano predecessore: avere cancellato il più significativo fra i luoghi di culto islamici, avere annullato la destinazione religiosa del fastoso simbolo della gloria ottomana strappato ai cristiani. Del resto si tratta, nella visione del nuovo sultano, di un errore rimediabile: con un decreto del luglio 2020 il museo viene soppresso e Santa Sofia torna a essere una moschea.
Chiarissimo il messaggio di Erdogan al suo popolo, al mondo musulmano e al resto della comunità internazionale: la Turchia riscopre il suo passato, gira le spalle all’Europa e si volge verso l’Asia e l’Africa, verso il nucleo mediorientale e nordafricano di quello che fu l’impero travolto dalla Grande guerra a coronamento di un lungo declino. Ufficialmente è tuttora candidata a entrare nell’Ue e lo stesso Erdogan si è nuovamente espresso per l’adesione, ma di fatto questa è ormai acqua passata, nessuno pensa realmente a Bruxelles che permanendo ad Ankara l’attuale gestione il negoziato possa ripartire. Eppure rimane sul tappeto un significativo dettaglio, l’impegno a trattenere, in cambio di sostanziose iniezioni finanziarie da parte dell’Unione, l’intenso flusso di migranti che provenendo dal Medio Oriente cerca attraverso il territorio turco di raggiungere l’Europa.
Rimane anche la singolarità di un Paese che, pur avendo distolto lo sguardo dall’Occidente, è tuttora membro dell’Alleanza atlantica (che si è riunita settimana scorsa a Bruxelles). Per la Nato la Turchia è sempre stata il pilastro convenzionale a guardia dei confini sudorientali della comunità occidentale. Una condizione in contrasto con la cronica ostilità e i secolari contenziosi che la dividono da un altro membro dell’alleanza, la Grecia. Atene e Ankara non di rado ai ferri corti, eppure alleati.
Al di là delle motivazioni ufficiali di ordine storico e religioso, Erdogan è mosso dalla necessità di offrire al suo popolo una politica di orgoglio nazionale che attenui gli effetti di una grave crisi economica. Da alcuni anni la nostalgia per il passato si manifesta con rinnovata intensità il 29 maggio, quando si celebra l’anniversario della presa di Costantinopoli. Secondo un collaudato modello storico, il regime in difficoltà agita le bandiere del patriottismo, invoca le radici religiose, coltiva le memorie legate alla grandezza antica. All’epoca in cui il sultano governava un territorio che si estendeva dall’Europa balcanica e carpatica al Nordafrica, dal Medio Oriente alle Colonne d’Ercole, dall’Anatolia alla «mezzaluna fertile» fra l’Egitto e la Mesopotamia. Agli anni fra Cinquecento e Seicento, quando gli ottomani sfidarono l’Europa e sembravano sul punto di prevalere. La sfidarono sul mare, fino alla battaglia navale di Lepanto, e la sfidarono in terra. Di fatto arrivarono fin sotto le mura di Vienna e il Continente si trovò di fronte alla prospettiva dell’islamizzazione.
Come qualche secolo prima Poitiers, dove i Franchi fermarono l’avanzata araba, Lepanto e Vienna bloccarono gli ottomani. Sono punti di svolta ai quali sarebbe difficile attribuire un valore poco più che simbolico, come si fa per Poitiers. Dopo l’apogeo cominciò il lento declino che si accentuò fra Otto e Novecento, e come sempre accade quando un ciclo storico entra in fase calante e un’istituzione vacilla, potenze affamate di bottino e di potere si precipitarono sulla preda.
Le province nordafricane diventarono colonie o protettorati europei, la guerra italo-turca si concluse con la perdita non soltanto della Tripolitania e della Cirenaica ma anche di Rodi e dell’arcipelago egeo del Dodecanneso. Poi toccò a quella che nelle carte dell’epoca ancora si chiama Turchia europea: le guerre balcaniche portarono alla nascita di nuovi Stati mentre due Imperi si allargarono su quei territori, l’austro-ungarico e il russo. E finalmente, con la prima guerra mondiale, il crollo definitivo dello Stato ottomano e la spartizione delle sue spoglie. Inconsapevoli dei guai in cui finirono col cacciarsi, Francia e Gran Bretagna s’insediarono nel Medio Oriente.
A questo punto il generale Mustafa Kemal, che presto si farà chiamare Atatürk, padre dei turchi, afferrò la barra del timone e lanciò la sua innovativa politica filo-occidentale. Prima di tutto depose l’ultimo sultano, Maometto VI, lanciò il Partito popolare repubblicano e s’installò alla presidenza della nuova Repubblica. Poi diede il via a un piano di radicali riforme. La lingua turca, che fino a quel momento si scriveva con i caratteri arabi, venne convertita all’alfabeto latino. Atatürk abolí il Califfato e pose le organizzazioni religiose sotto il controllo dello Stato. Vietò alle donne di portare il velo nei luoghi pubblici. Per non turbare troppo i fedeli conservò l’Islam come religione ufficiale. Fece riscrivere i Codici, i suoi giuristi s’ispirarono alla Svizzera per il civile, all’Italia per il penale. Affidò alle forze armate la funzione di garanzia di uno Stato laico e occidentalizzante, non fosse per il partito unico e la forte impronta autoritaria.
È lo Stato kemalista che Erdogan sta scuotendo fin dalle fondamenta innalzando il ruolo della religione, ridimensionando quello dei militari, abolendo la legge sul velo. Si direbbe che voglia adattare le scelte politiche alla geografia del Paese. Non sarà più quel superstite pezzetto dei domini europei che ospita gli splendori di Bisanzio-Costantinopoli-Istanbul a determinare l’essenza ideologica della Turchia, prevarrà la grande massa asiatica della penisola anatolica, che contiene la capitale spostata da Atatürk proprio per attenuare il peso ingombrante della metropoli sul Bosforo. Non a caso questo Paese atlantico e candidato all’Unione europea guarda con interesse all’Asia centrale non più sovietica, dove si parlano lingue altaiche strettamente imparentate con il turco: kazako, uzbeko, kirghiso, turkmeno. Lingue depositate nei secoli dai popoli nomadi che dall’Oriente mongolico sciamavano verso Occidente. Anche i rapporti con l’Afghanistan, che Ankara considera nevralgici, fanno parte di questa predilezione asiatica.
Oltre al ripristino in mutata forma, dove sia possibile, degli antichi vincoli imperiali la svolta neo-ottomana comprende anche la proiezione verso il Levante centro-asiatico. Nelle Repubbliche post-sovietiche il nazionalismo turco localizza un’area d’influenza che appare come una scelta obbligata, predisposta com’è dai sedimenti della storia.
Il sultano Erdogan e lo sguardo al passato
La Turchia gira le spalle all’Occidente, volgendosi verso l’Africa e l’Asia. Il regime in difficoltà agita le bandiere del patriottismo, invoca le radici religiose e coltiva le memorie legate alla grandezza antica
/ 21.06.2021
di Alfredo Venturi
di Alfredo Venturi