«Penso che il presidente della Confederazione Alain Berset sia, tra i membri del nostro Governo, l’unico che potrebbe decidere di non più candidarsi per una nuova legislatura». Siamo in un anno elettorale, in autunno ci sarà il rinnovo del Parlamento e poi l’elezione del Consiglio federale, e l’ex ministro Pascal Couchepin si lancia in questo pronostico, aggiungendo che «en tous cas, c’est son affaire». In carica dal 1998 al 2009, Couchepin la settimana scorsa ha lasciato il suo Vallese per partecipare a Massagno alla presentazione del libro di Moreno Bernasconi Come cambia la Svizzera. Occasione per noi per intervistarlo sui temi caldi della politica svizzera.
Signor Couchepin, iniziamo da una questione che a prima vista potrebbe sembrare marginale: il diritto d’urgenza. Il Consiglio federale lo ha utilizzato più volte nel corso della pandemia e di recente anche per evitare il tracollo di Credit Suisse. Il governo decide in autonomia e il parlamento ha poco o nulla da dire. La democrazia svizzera ha un problema?
Sì e no. Negli anni della pandemia ci siamo accorti che le nostre leggi in materia ma non erano del tutto adatte a rispondere a questa emergenza. C’è stato bisogno di apportare dei correttivi e per questo il Consiglio federale ha fatto ricorso al diritto d’urgenza. Oggi, se facciamo un bilancio, possiamo dire che forse questo strumento è stato utilizzato troppo frequentemente. Ma dirlo adesso è fin troppo facile, sul momento, nel bel mezzo della crisi, il nostro Governo si è mosso bene e devo fare i miei complimenti al Consiglio federale per come ha saputo gestire questa emergenza. In linea generale il diritto d’urgenza deve essere visto come una misura eccezionale. Per questo motivo, e qui passo al caso del Credit Suisse, sostengo la creazione di una commissione parlamentare d’inchiesta. È importante avere una risposta a questa domanda: il Consiglio federale si è mosso correttamente nell’evitare il tracollo di questa banca? Nel 2008 ero presidente della Confederazione e ho dovuto gestire il salvataggio di UBS. In quelle settimane avevo vietato ai miei collaboratori di replicare alle critiche. L’ho fatto perché penso che, stando al Governo, dobbiamo sempre chiederci se le critiche che riceviamo siano o meno pertinenti. Molto spesso non lo sono. Ma dobbiamo essere contenti del fatto che il popolo, attraverso il Parlamento, possa criticare il Governo, anche quando utilizza il diritto d’urgenza. È fondamentale per la democrazia.
Lei, come detto, era in prima linea nel 2008, quando il Governo ha dovuto salvare UBS, che era ormai giunta sull’orlo del precipizio. Cosa significa dover salvare in poche ore una banca di quella grandezza e con essa l’intero sistema finanziario del nostro Paese?
Se penso a quell’emergenza non posso dimenticare il lavoro svolto dalla Banca Nazionale e dal Dipartimento federale delle finanze. Sono stati loro a preparare il piano di salvataggio e non smetterò mai di ringraziarli. E provo lo stesso sentimento di riconoscenza anche nei confronti dei miei colleghi di Governo, che hanno saputo decidere con serenità. In particolare ricordo il grande lavoro fatto da Eveline Widmer Schlumpf, che in quel momento aveva assunto temporaneamente la carica di ministra delle Finanze, visto che il titolare di quel Dipartimento, Hans-Rudolf Merz, era stato colpito da un arresto cardiaco. Fu un momento davvero concitato. Successivamente il parlamento ci aveva criticato per come era stata salvata la banca, ed è un bene che lo abbia fatto, visto che anche in quel caso avevamo fatto ricorso al diritto di urgenza. E poi provo anche un po’ di fierezza personale per come sono riuscito a coordinare le operazioni, con un governo che all’unanimità aveva varato il piano di salvataggio di UBS. Il mio merito si limita a questo.
Una quindicina d’anni più tardi la storia si è ripetuta, con il collasso di Credit Suisse. A suo modo di vedere la Svizzera ha subito un danno d’immagine per quanto capitato?
Quelli che pensavano alla Svizzera come a un Paese perfetto si sbagliavano. È un’immagine irreale. Ciò detto, sono stato sorpreso da quanto capitato ma anche impressionato dalla rapidità di reazione del governo. Non credo che ci sia stato un danno di immagine per il nostro Paese, anzi per me la Svizzera ne sta uscendo bene. Certo dobbiamo tutti sperare che questa operazione possa ora andare a buon fine.
E qui è inevitabile porle questa domanda: UBS oggi è troppo grande? E per questo rappresenta un pericolo per il nostro Paese?
Mi rifaccio a quanto dice il CEO di UBS. Per Sergio Ermotti la banca è molto grande a livello a svizzero ma non lo è su scala internazionale. Occorre trovare un compromesso tra queste due varianti, senza intaccare il dinamismo di UBS e senza prendere rischi inutili. In ogni caso la storia ci insegna che anche in futuro ci saranno altre crisi bancarie. I rischi fanno parte della vita e ancor più del mondo della finanza. Come mi diceva un amico psichiatra: il solo posto in cui non ci sono pericoli è in una tomba. Meglio dunque accettare di correre qualche rischio.
Passiamo ad un altro tema caldo del momento, quello della neutralità, uno dei pilastri della nostra politica estera, che però da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, non viene più capito dai Paesi che ci circondano. Un bel guaio?
Ciò che questi Paesi non capiscono è la nostra rigidità su questo tema. La neutralità non è un dogma. Le faccio un esempio, e ci metto un pizzico di ironia. Se applicassimo la neutralità in modo rigido non potremmo neppure entrare in una chiesa e pregare per il popolo che è stato attaccato. La neutralità assoluta ci porterebbe anche a queste conseguenze. Ed è quanto vorrebbe chi nel nostro Paese pensa al futuro guardando al passato.
Altro tema legato alle nostre relazioni con l’estero: l’Unione Europea. Qui il nostro Paese marcia da anni sul posto, siamo davvero in un vicolo cieco?
La Svizzera su questo tema è bloccata. È giunto il momento di fare uno sforzo per rilanciare i negoziati. Ma bisogna anche dimostrare di voler effettivamente raggiungere dei risultati concreti. Non dobbiamo dimenticarci che la popolazione dell’Unione Europea è di quaranta volte superiore a quella della Svizzera e che il nostro prodotto interno lordo corrisponde ad appena un ventesimo di quello europeo. Certo, dobbiamo difendere i nostri interessi, non siamo un Paese vassallo dell’Unione. Dobbiamo però trovare degli accordi con questo nostro vicino che è molto più forte di noi e di cui abbiamo bisogno, non solo sul piano economico ma anche per difendere insieme i valori democratici in cui crediamo».
Lei dice che la Svizzera non deve diventare un Paese vassallo dell’UE, ma Bruxelles insiste sul ruolo che della Corte europea di giustizia, chiamata ad avere l’ultima parola in caso di contenziosi con Berna. È il problema dei giudici stranieri, non per nulla c’è chi definisce «coloniale» un possibile accordo di questo tipo con l’UE...
Sa, non dobbiamo esagerare. Il numero di casi in cui si dovrà ricorrere a questa Corte sarà molto limitato. E poi come si fa a pensare che la stessa norma, stabilita dall’UE, venga giudicata in due modi diversi. Si tratta di diritto europeo e la Corte non può che essere quella europea. Non dobbiamo quindi ingigantire le controversie che ruotano attorno a questo tribunale. Le nostre relazioni con l’UE vanno ben al di là di questo problema, che resta comunque un nodo politico da sciogliere.