Il sogno federalista di un esercito europeo tramontò a Parigi in una calda giornata di fine estate. Era il 30 agosto del 1954 quando l’Assemblea nazionale con 319 voti contro 264 negò la ratifica al trattato che proprio la Francia aveva proposto, e che poco più di due anni prima aveva istituito la Ced, Comunità europea di difesa. Era considerata un primo passo verso la fusione delle forze armate nazionali. Dei sei Paesi interessati, gli stessi che stavano creando con la Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio – l’embrione della futura Unione continentale – Belgio, Olanda, Lussemburgo, e Germania lo avevano già ratificato, l’Italia aveva rinviato il voto alla decisione parlamentare francese e poiché era richiesta l’unanimità non se ne fece nulla. Era la fine della grande aspirazione europeista: dopo la devastante guerra conclusa 9 anni prima si volevano vedere gli ex nemici riuniti sotto le stesse bandiere, pronti all’occorrenza a difendere insieme un’Europa sempre più unita. Il processo dell’integrazione continentale dovette trasferirsi dalla politica all’economia, secondo le linee del cosiddetto metodo funzionale.
L’attualità della guerra ucraina, la decisione di aumentare considerevolmente le spese militari e in particolare l’annunciato riarmo tedesco riportano alla ribalta quella che appare come un’occasione storicamente mancata. Se l’Europa potesse contare su una struttura difensiva integrata, il suo ruolo nella gravissima crisi in corso sarebbe più forte e forse decisivo. In un mondo che ancora ragiona come Carl von Clausewitz, un mondo che si chiede quante divisioni abbia il Papa, la voce di chiunque si proponga di risolvere un’emergenza può farsi ascoltare soltanto se alle spalle di chi parla c’è un’adeguata forza d’urto. Negli ambienti militari è diffusa l’opinione che se esistesse una difesa europea efficiente l’Ucraina non sarebbe stata invasa. Qualcuno si augura che proprio questa crisi, rinsaldando la coesione fra i Ventisette, possa rilanciare il progetto affossato nel 1954, superando la frammentazione delle forze armate nazionali in cui si articola la difesa europea.
Si confida sul fatto che sono venute meno alcune situazioni che ostacolarono fino a vanificarlo il progetto della Ced, a cominciare dall’ossessione francese per una Germania di nuovo militarmente attrezzata. Proposto dal primo ministro René Pleven, il piano prevedeva inizialmente che ogni paese contribuisse con una divisione all’esercito comune mantenendo anche le forze armate nazionali. Con una sola eccezione in questa prima formulazione la Repubblica federale avrebbe limitato il riarmo alla sola unità sotto il comando unificato. Una clausola limitativa del resto in linea con l’atteggiamento pacifista dell’opinione pubblica e del governo tedesco, allora guidato dal cancelliere Konrad Adenauer. Ma non tutti concordavano sull’iniziativa in sé: la sinistra socialdemocratica temeva che potesse pregiudicare la possibilità della riunificazione nazionale.
In quei primissimi anni Cinquanta il negoziato si trascinava a fatica, gli Stati Uniti premevano perché la nascente difesa continentale assumesse un ruolo di punta nell’ambito della Nato. Washington arrivò a minacciare un riarmo tedesco in piena regola se non si fosse fatto l’esercito europeo. E così finalmente si giunse al trattato, dopo che un’assemblea allargata della neonata Ceca ne ebbe perfezionati i lineamenti statutari.
Nonostante le riserve francesi la Germania poté ricostituire le sue forze armate, sia pure con forti limitazioni. A questo punto non restava che la ratifica da parte dei sei parlamenti, che si protrasse stancamente per alcuni mesi fino al diniego parigino. A spiegare tante reticenze, a ridimensionare l’urgenza della difesa comune furono la fine della guerra di Corea e la morte di Stalin, che fece venir meno o almeno attenuò fortemente la temutissima minaccia sovietica. Per la Francia persisteva inoltre una diffusa avversione al riarmo tedesco, mentre un senso di profonda frustrazione nazionale era determinato dall’andamento della guerra in Indocina: la sconfitta di Dien Bien Phu precedette di pochi mesi il fatidico voto contro la Ced.
Fu necessario attendere il 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino, perché si costituisse in Europa una prima unità militare multinazionale, per la precisione binazionale. Voluta dal presidente François Mitterrand e dal cancelliere Helmut Kohl nel quadro della ritrovata amicizia fra i due Paesi, la Brigata franco-tedesca comprende seimila uomini schierati da una parte e dall’altra del Reno, il grande fiume che nella storia ha sempre separato due popoli nemici. Lo stato maggiore ha sede a Müllheim nel Baden-Württemberg, dove si alternano al comando un generale tedesco e uno francese. Tre anni più tardi la Brigata franco-tedesca è entrata a far parte del Corpo europeo di reazione rapida, meglio noto come Eurocorps, nel quale è la sola unità permanentemente mobilitata. Istituito nel 1992 con sede a Strasburgo, l’Eurocorps ripropone in forma schematica l’armata europea che naufragò sugli scogli dell’Assemblea nazionale francese. Si tratta di un esercito di quadri, una struttura di comando e controllo, in pratica lo stato maggiore di un corpo d’armata che in caso di necessità dovrebbe poter mobilitare fra tutti i Paesi dell’Unione una forza di cinquanta o sessantamila uomini, secondo l’obiettivo definito nel 1999 dal Consiglio europeo di Helsinki.
Dell’Eurocorps fanno parte in servizio permanente un migliaio di uomini provenienti da cinque Paesi (Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Spagna) mentre sei Paesi associati (Austria, Grecia, Italia, Polonia, Turchia e Romania) sono rappresentati a livello di comando. La finalità del Corpo di reazione rapida riguarda non soltanto la difesa comune, ma anche operazioni umanitarie e missioni di imposizione e mantenimento della pace per conto dell’Onu, dell’Osce, della Nato. Finora è stato attivo in Bosnia, Kosovo e Afghanistan. Incaricato fra l’altro di tutelare la sicurezza delle istituzioni comunitarie di Strasburgo, l’Eurocorps non è certo l’esercito europeo cui aspira il movimento federalista, ma delinea una struttura che in tempi di crisi potrebbe rivelarsi essenziale.