Nella partita tra Francia e Turchia che attraversa tutto il Mediterraneo, dall’Egeo a Gibilterra, per prolungarsi fin nel Sahel, la Tunisia è il nuovo oggetto del contendere. Il colpo di Stato nemmeno troppo mascherato con cui il 25 luglio il presidente Kais Saied ha avocato a sé tutti i poteri, dimettendo il primo ministro Hichem Mechichi e sospendendo per un mese i lavori del Parlamento guidato dal capo del partito islamista Ennahda, Rached Ghannouchi, s’inquadra in questo scontro strategico. Nel quale sono coinvolte tutte le potenze regionali, fino alle petromonarchie del Golfo, favorevoli al golpe con l’eccezione del Qatar, alleato e finanziatore della Turchia. La coppia Turchia-Qatar guida e sponsorizza quel che resta della Fratellanza musulmana, considerata dai regimi arabi, Egitto, Algeria ed Emirati arabi uniti in testa, una struttura terroristica sovversiva.
La Francia è con questa cintura anti-Fratellanza. Per almeno due motivi. Primo, considera la Turchia il massimo sponsor dell’islamismo domestico, comprese le frange terroristiche. Secondo, perché la Tunisia è storicamente una delle piattaforme strategiche della sua proiezione mediterranea e africana che ancora oggi, ad impero formalmente dissolto, costituiscono un fattore di innalzamento della sua potenza e del suo rango. L’altro almeno teoricamente importante attore europeo nella regione, e specialmente a Tunisi, sarebbe l’Italia. Ma Roma ha da tempo perso il ruolo che fino allo scadere dello scorso secolo esercitava in tutta la facciata nordafricana, quasi sempre in frizione con Parigi. Il colpo di Stato attuale, giustificato con un’interpretazione molto estensiva della Costituzione, non è insomma figlio solo della spaventosa crisi economica e sociale, della deliquescenza delle fragili strutture statali, del caos che da anni attanaglia un Paese già additato quale esempio di potenziale successo delle cosiddette «primavere arabe». In questo disordine, che porta ogni giorno masse di giovani tunisini a sfidare le onde del Mediterraneo per approdare in Italia, pescano le potenze che contano. Nel caso di Saied, soprannominato Robocop per la postura rigida e il fraseggio metallico in arabo classico, osservandone l’ombra lunga se ne coglie facilmente la coda tricolore blu-bianco-rossa.
In parole povere, incarna e accomoda il tentativo francese, sostenuto dal citato fronte dei regimi arabi, di eliminare o almeno diluire l’influenza della Turchia sulla Tunisia. Dopo Tripoli, l’avvento a Tunisi di un Governo sotto controllo di Ankara, ossia della Fratellanza musulmana, sarebbe stato intollerabile per la Francia e i suoi alleati. Eppure, grazie anche all’azione del partito Ennahda, trattato da Saied come responsabile del disastro economico e politico interno, la Turchia stava mettendo le mani su quel Paese relativamente piccolo, schiacciato fra Algeria e Libia, ma strategico. Ad esempio, nelle scuole tunisine la seconda lingua insegnata, dopo l’arabo, non è più il francese ma il turco.
Salta subito agli occhi il parallelo con il «golpe medico» di marca italiana, con cui nella notte fra il 6 e il 7 novembre 1987 il Governo di Roma mise fine alla lunga stagione del senescente Habib Bourghiba, già padre della patria tunisina, per installare al suo posto Zine el-Abidine Ben Ali, poi cacciato dalla rivolta del 2010-11, nota come «rivoluzione dei gelsomini». Si trattò allora di una operazione voluta dal premier Bettino Craxi per impedire che l’Algeria invadesse la Tunisia e scatenasse il caos alla frontiera meridionale dell’Italia. Parigi vi si oppose, senza successo. Oggi, a parti invertite, l’Italia assiste quasi impotente al cambio della guardia in corso.
La situazione resta infatti fluida. L’anziano presidente Saied, pur sostenuto da buona parte della popolazione (soprattutto i giovani, grande maggioranza fra gli 11 milioni di tunisini), non è un leader forte né ha una base politico-partitica su cui poggiare. La Fratellanza musulmana, guidata dall’anziano e malato Rached Ghannouchi, deposto presidente del Parlamento, è ramificata e influente soprattutto in provincia. La Turchia non mollerà certo la presa. Da Tripoli, città sotto il suo indiretto controllo, già organizza la risposta al colpo di Stato di Saied. Allo scadere dei trenta giorni di sospensione del Parlamento manca poco. Tutto è possibile.
Spicca la reticenza degli Stati uniti ad esprimersi e a pesare nella crisi tunisina. La posizione di Washington è delicata. Francia e Turchia sono Paesi formalmente alleati, ma tendono a seguire traiettorie peculiari in ambito atlantico. Di sicuro gli americani non sono disposti a coprire più di tanto un golpe ispirato o comunque fruito dai francesi. Il loro rapporto con l’islam politico incarnato dalla Fratellanza è quanto meno ambiguo, fin dai tempi di Obama. Soprattutto, la Turchia è considerata un socio difficile, talvolta ostile, ma comunque utile. Per esempio nel contenimento della Russia, nel Mar Nero come nel Mediterraneo centro-orientale. Ma Washington ha rinunciato ad esporsi nell’area, e difficilmente cambierà approccio.
Il ruolo di Parigi nel golpe tunisino
Saied incarna la volontà francese di attenuare l’influenza della Turchia sull’area
/ 09.08.2021
di Lucio Caracciolo
di Lucio Caracciolo