Il ritorno di Trump visto da Taiwan

L’Estremo Oriente non nasconde le sue preoccupazioni riguardo a una seconda presidenza degli Usa di The Donald. Anche se vincesse la nomination repubblicana, dice l’analista Yujen Kuo, ci sarebbero gravi ripercussioni e non solo a Taipei
/ 04.09.2023
di Federico Rampini

Un aggiornamento sullo stato della campagna elettorale americana lo riassumerei così. A ogni nuova incriminazione – siamo alla quarta, con tanto di mugshot o foto segnaletica! – Donald Trump si rafforza nella base repubblicana e aumenta le probabilità di essere il candidato della destra. La base del suo partito tende a considerarlo vittima di un accanimento giudiziario, non senza qualche ragione. Ma al tempo stesso cominciano a circolare dei sondaggi che rivelano l’impatto diametralmente opposto che gli sviluppi giudiziari hanno sulla fascia degli elettori indipendenti o indecisi: qui le incriminazioni gli fanno perdere consensi.

Dunque il gioco dei democratici, a prescindere dai suoi fondamenti giuridici o etici, è machiavellicamente lucido: bisogna assicurarsi che Trump vinca la nomination repubblicana, perché è assai probabile che egli sarà sconfitto nella sfida finale contro il candidato democratico che, salute permettendo, sarà Joe Biden. Quest’analisi l’ho ripetuta in una mia conferenza a Taipei a fine agosto. Ma non è bastata a rassicurare chi mi ascoltava su quell’isola a poca distanza dalla costa cinese.

In poche parti al mondo il primo dibattito tra candidati repubblicani alla nomination è stato seguito con tanta apprensione quanto a Taiwan dove ho passato di recente una decina di giorni. Forse solo Tokyo, Seul e Manila si avvicinano a questo livello di preoccupazione. Mi riferisco al fatto che un «elefante nella stanza» ha dominato quel dibattito, anzi un elefante fuori dalla stanza: il grande assente Donald che ha snobbato il confronto dall’alto degli oltre venti punti di distacco che infligge al meglio piazzato di tutti gli altri (il governatore della Florida Ron DeSantis). Visto dall’Estremo Oriente il potenziale destabilizzante di una seconda presidenza Trump è enorme. Ma non c’è neppure bisogno d’immaginarlo vincitore nel novembre 2024, perché già la sua nomination innescherebbe delle ripercussioni. Me lo spiega un acuto analista degli equilibri strategici nell’Indo-Pacifico, il professor Yujen Kuo della National Sun Yat-Sen University di Taiwan.

Yujen Kuo comincia col riassumere ciò che di Trump si ricorda in Asia. Il fatto che la sua vittoria elettorale nel 2016 fu seguita immediatamente da una telefonata alla presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, che fece infuriare Pechino e sembrò un gesto di forte sostegno a quest’isola, è stato presto dimenticato alla luce dei suoi comportamenti successivi. «Non appena entrato alla Casa Bianca – dice l’analista taiwanese – Trump fu dominato dall’ossessione di disfare tutto ciò che aveva fatto Barack Obama. Allo stesso modo oggi uno dei suoi slogan preferiti è: licenzierò Joe Biden. Il che può implicare una distruzione del lavoro di alleanze, che ci preoccupa molto. E non c’è bisogno di aspettare fino al risultato del novembre 2024, perché non appena Trump dovesse ottenere la nomination repubblicana già si farebbe sentire il suo impatto all’estero, sull’Ucraina come su Taiwan. A lui piace parlare… Da queste parti noi ricordiamo che nel 2018 Trump lanciò una guerra dei dazi non solo contro la Cina, ma anche contro un prezioso alleato come il Giappone. La sua linea sarà dominata da due tratti: la distruzione dei predecessori, e l’arbitrio totale. Perciò già dal momento della sua nomination l’effetto sarebbe di indebolire gli alleati e rafforzare i nemici. Né esiste un piano B per contenere la Cina, se l’America si ritrae nell’isolazionismo. Nonostante il recente summit di Camp David, dove Biden ha riunito il premier giapponese e il presidente sudcoreano, non ci sono le condizioni per una vera Nato asiatica. Le dispute ideologiche ereditate dalla seconda guerra mondiale e alimentate nel dopoguerra continuano a pesare».

Lo scenario Usa in casa repubblicana – che include l’isolazionismo di Ron DeSantis – spaventa tanto più alla luce dell’evoluzione nei rapporti di forze militari in Estremo Oriente. «La capacità delle forze armate cinesi – dice Yujen Kuo – cresce del 3% all’anno ed è moltiplicata due volte e mezzo nell’ultimo ventennio. È un vero mostro. La flotta militare cinese ha sorpassato quella americana. Gli equilibri si stanno alterando al punto che diventa verosimile per la Repubblica popolare di poter cacciare l’America da quest’area. Questo significa non solo annettere Taiwan ma cacciare gli americani dall’isola giapponese di Okinawa e dalle Filippine. Non è più soltanto una questione di volontà politica, di buone o cattive intenzioni da parte dei leader di Pechino; è una questione di rapporti di forze tra un ex-egemone in declino e un nuovo egemone in ascesa». Con l’esperto taiwanese rivisito ciò che la guerra in Ucraina può averci insegnato, e anche le lezioni che ne estrae Xi Jinping. Le sorprese positive sono state di tre ordini. Primo, la determinazione delle forze armate e del popolo ucraino nel difendersi. Secondo, la resilienza dell’economia ucraina: dalla produzione agricola alle utility energetiche non c’è stato il tracollo previsto. Terzo, la mobilitazione collettiva dell’Occidente per fornire aiuti. Ma cosa pensa Xi Jinping, quali lezioni ne estrae per Taiwan?

«Anzitutto – dice Yujen Kuo – lui punta a logorare i taiwanesi molto prima che la guerra abbia inizio. È già in atto una guerra ibrida, fatta di disinformazione e tanti atti volti a confondere l’identità dei taiwanesi. Inoltre la Repubblica Popolare sta sfruttando al massimo una specifica vulnerabilità della nostra democrazia, accentuata dal fatto che le nostre élite non capiscono o fanno finta di non capire che la guerra è già cominciata: mi riferisco al fatto che continuiamo a praticare una trasparenza totale nel settore delle opere pubbliche e delle commesse statali, il che regala ai cinesi una messe enorme di informazioni sulle nostre infrastrutture. Grazie alla nostra trasparenza sanno tutto di noi, le reti infrastrutturali più strategiche e nevralgiche sono aperte alla penetrazione dei cinesi. Faccio un esempio concreto di quanto siamo ingenui e quindi vulnerabili. Un paio di giorni fa è stato lanciato un progetto per ammodernare le nostre difese aeree, con un investimento da 9 miliardi di dollari Usa. Ebbene, in nome della trasparenza e del buongoverno tutto ciò avviene con procedure pubbliche, ogni dettaglio è disponibile. Quando gli americani effettuano dei wargames per simulare una guerra su Taiwan, tutto si gioca sulla loro capacità di venire in soccorso alle nostre forze armate dopo l’attacco iniziale dalla Cina. Ma gli americani non possono neppure sapere quali infrastrutture sono disponibili per far atterrare le loro truppe e i loro rifornimenti, e quali invece sono già oggi controllate dai cinesi. Quante strutture logistiche dei nostri aeroporti, quante banchine dei nostri porti sono in realtà di proprietà cinese?».

In quanto alla possibilità che una guerra su Taiwan si limiti a Taiwan, l’esperto della Sun Yat-Sen University la esclude senza esitazioni. Ecco il suo ragionamento: «Le rotte per portare aiuti a quest’isola vengono da Okinawa e dalle Filippine. Questo significa che l’Esercito popolare di liberazione (le forze armate cinesi) si prepara da anni a chiudere queste possibilità. L’attacco alle basi militari Usa di Okinawa e delle Filippine farebbe subito parte della guerra. Il Giappone non avrebbe l’opzione di decidere se entrare o non entrare nel conflitto, perché sarebbe attaccato comunque, sull’isola di Okinawa che è la più grande base americana del mondo con oltre 24mila marines e 150 jet. Né si può escludere un allargamento immediato alla penisola coreana, magari perché la Corea del Nord ne approfitterebbe per attaccare Seul. O un ingresso della Russia nel conflitto, con un attacco al Giappone settentrionale».

Continua l’esperto: «Il Giappone ha sessantamila isole da difendere, un territorio sparpagliato di sei milioni di km quadrati, è un grande Paese con le forze armate di un piccolo Paese; e non ha mai firmato un trattato di pace con la Russia dopo la Seconda guerra mondiale. Taiwan non è l’Ucraina dove la guerra si sta svolgendo prevalentemente sul territorio di un solo Paese, quello aggredito. In caso di guerra su Taiwan, tutto l’Estremo Oriente diventerebbe zona di guerra, da subito».