L’Italia resta un paese a rischio per l’Eurozona e per la Nato. La prova di questo non invidiabile privilegio emerge da una lettura non troppo provinciale della crisi di governo estiva e della sua provvisoria conclusione. Gran parte della stampa italiana e internazionale vi ha intravisto le solite «incomprensibili» moine dei palazzi italiani. Con l’aggiunta del riuscito tentativo di suicidio politico (anch’esso probabilmente provvisorio) di Matteo Salvini, fino a ieri dominus quasi incontrastato della scena governativa e parlamentare del Belpaese, giocata peraltro più sulle piazze o sulle spiagge che nelle canoniche sedi del potere. E con l’improvviso ritorno dell’altro Matteo, Renzi, tessitore della nuova coalizione M5Stelle-Pd, restando pronto ad affondarla alla prima occasione utile (per sé).
Sarebbe errore serio fermarsi a questi dati, tutti interni al Belpaese. Decisiva per la messa in mora di Salvini è stata la pressione internazionale. Soprattutto americana, ma in buona parte anche francese e in minor misura tedesca. Perché i «poteri forti» euroatlantici hanno contribuito al cambio di governo, all’estromissione della Lega dalle «stanze dei bottoni»? Semplice, perché l’Italia stava deragliando. Come una locomotiva impazzita, pareva sul punto di finire in un burrone. Trascinando con sé i vagoni di eurosoci e alleati atlantici, o almeno parte di essi. Ciò che non le è consentito dalla fine della Seconda guerra mondiale quando, volente o nolente, è entrata nella famiglia euroatlantica. Ovvero nella sezione europea dell’impero americano. Nella Nato, poi nell’Ue e infine nell’Eurozona.
Quello che di fatto era il governo Salvini – per gli almanacchi, il Conte 1 – non rispondeva più ai comandi. In politica estera, ammiccando ai russi, litigando sempre e comunque con i francesi, i tedeschi e la cosiddetta «Europa» (l’Unione Europea), bollata colpevole di ogni nefandezza, quasi fosse interessata solo a soffocare l’economia italiana. L’ultimo, decisivo errore: l’accordo con i cinesi per le «vie della seta». Problema non tanto economico-commerciale, invece fondamentalmente geopolitico. Per Washington, la firma del memorandum of understanding fra Pechino e Roma, pur vuoto di contenuti concreti, era preannuncio di una scelta di campo. Contro l’America, per la Cina.
L’Italia, provincia dell’impero a stelle e strisce, si trovava così in un colpo solo a flirtare con i due nemici massimi degli Stati Uniti: la Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa. Tradimento. Aggravato dalla mancata consultazione con Washington, cui Roma, come tutti gli alleati europei, è tenuta per pluridecennale consuetudine. Oltre al reato di alto tradimento, il dolo, la manovra nell’ombra.
Allo stesso tempo, le peregrine manovre tattiche (azzardate o solo annunciate) di politica economica e fiscale, fra l’altro in palese contraddizione fra loro, avevano spinto i mercati a riprendere in considerazione il rischio Italia. Ovvero la possibilità che l’Italia prima o poi finisse fuori dall’euro. Per scelta propria o semplice inconsapevolezza, incoscienza.
In questi ultimi anni una domanda agitava i mercati e i governi, vicini e lontani: l’Italia è troppo grande per fallire o è troppo grande per essere salvata. L’impressione era che la seconda ipotesi cominciasse a prevalere. Anche per l’obiettivo declino economico e per l’affondo di varie aziende (molte di Stato) europee (specie francesi) o extraeuropee agli ultimi bocconi prelibati dell’industria e della tecnologia italiana. Inoltre, la Germania ha un forte interesse a che non si registri la seconda possibilità –il fallimento dell’Italia, con una crisi dagli inevitabili contraccolpi sociali, politici e geopolitici – essendo la catena del valore industriale tedesco penetrata in profondità nel tessuto del Nord italico. Al punto che una crisi finale dell’Italia colpirebbe pesantemente gli interessi tedeschi.
Facendo perno sul Quirinale, americani ed europei hanno fatto di tutto, in modo nemmeno troppo coperto, per togliere di mezzo Salvini. Il quale ha dato un forte contributo ai loro sforzi, con la scelta di aprire una crisi di governo in agosto. Inedito italiano.
Tutto questo non sarebbe potuto accadere se l’Italia fosse davvero «troppo grande per essere salvata». Intendiamoci, nessuno morirà per il Belpaese. Ma le dimensioni economiche, strategiche e simboliche dell’Italia restano tali da garantirgli un ruolo sistemico. Se si fonde il nocciolo italiano e se Roma esce dall’euro ne restano seriamente colpiti tutti gli alleati. E il resto del mondo, data la portata del sistema euro su scala mondiale.
Si conferma così che la potenza è di due tipi: quella effettiva, positiva somma di mezzi e virtù in campo economico, militare, culturale, tecnologico; oppure quella misurata dalla somma algebrica della propria debolezza, delle notevoli dimensioni complessive e della incapacità di gestirsi. Per cui affondando gli italiani trascinerebbero con sé gli altri, o almeno molto di loro. Il famoso Stellone italiano è questo, nient’altro. Ma non durerà in eterno. L’Italia si rimetterà in piedi, oppure presto o tardi qualcuno stabilirà che sì, non è più così rilevante da obbligare gli altri a salvarla da sé stessa.