Dunque il piccolo re riposa nella basilica barocca di Vicoforte nel vecchio Piemonte sabaudo che già da quattro secoli custodisce i resti di Carlo Emanuele, il cinque-seicentesco principe guerriero soprannominato «Testa di fuoco» che vantava fra i suoi antenati. Ma alcuni fra i famigliari, oltre ai nostalgici della monarchia sabauda che ancora sognano la restaurazione, avrebbero voluto un’altra compagnia per Vittorio Emanuele III, quelle del padre Umberto I e del nonno Vittorio Emanuele II, i suoi predecessori sul trono d’Italia le cui tombe monumentali si offrono ai turisti che a milioni visitano il maestoso recinto del Pantheon nel cuore di Roma. Per quasi mezzo secolo re d’Italia: non è forse un requisito sufficiente per la trionfale sepoltura nel tempio che i romani dedicarono a tutti gli dei dell’Olimpo? Non proprio, se consideriamo come svolse il suo ruolo nei 46 anni compresi fra il regicidio di Umberto I e l’abdicazione del successore nel paese sconvolto dal delirio fascista e da una guerra catastrofica. Un bilancio segnato da un paio di generazioni devastate da due conflitti mondiali, due guerre coloniali, vent’anni di tirannide.
Alla fine, la faticosa riconquista di un assetto democratico non poteva che prescindere dal sovrano che aveva assecondato quegli eventi. Dal re che rifiutò di firmare la proclamazione dello stato d’assedio per bloccare l’assalto fascista al potere, e che più tardi firmò le scellerate leggi dell’arbitrio a cominciare da quelle che sancivano le discriminazioni sulla base di presunte inferiorità razziali. Del capo di Stato che nel turbine della guerra lasciò la sua capitale in balia degli eventi abbandonando al loro destino le forze armate prive di istruzioni. I monarchici sostengono che la tumulazione al Pantheon poteva essere un gesto di riconciliazione nazionale, una pietra sopra le laceranti divisioni del passato. Riconciliazione sì, ribattono le istituzioni di Roma e la netta maggioranza dell’opinione pubblica, ma non oltre il consenso al ritorno in Italia dei resti regali, alla loro traslazione nella basilica di Vicoforte.
Molti, come la comunità ebraica e l’associazione che difende la memoria della guerra partigiana, sostengono che anche questo consenso contraddice una giusta lettura della storia e delle personali responsabilità del penultimo re d’Italia. Anche perché il retour des cendres è avvenuto con un volo di Stato e un reparto militare ha reso gli onori al feretro regale. Tutto questo sulla base di un accordo seguito a lunghi anni di negoziato fra alcuni esponenti dei Savoia e le autorità italiane. Faceva parte dell’intesa la rinuncia alla pretesa di portare quei resti al Pantheon: ma è proprio su questo punto che i famigliari del re si sono divisi, con il pronipote Emanuele Filiberto, uomo di mondo e di televisione, in prima fila a sostenere che una sepoltura davvero regale spettava al bisnonno. E alla bisnonna, la regina Elena di Montenegro, che ha preceduto di pochi giorni l’approdo a Vicoforte del marito Vittorio Emanuele.
La coppia aveva condiviso l’esilio ad Alessandria dopo l’abdicazione e il passaggio delle consegne al figlio Umberto, il «re di maggio» detronizzato dalla scelta repubblicana degli italiani nel referendum del 2 giugno 1946. Il 28 dicembre 1947 il re esule morì e venne sepolto nella cattedrale cattolica della città egiziana, dopo un solenne funerale di Stato con tanto di feretro trasportato su un affusto di cannone, per volontà del re d’Egitto Faruk, anche lui presto destinato all’esilio. La regina vedova si trasferì a Montpellier dove morì nel 1952, e proprio di qui i suoi resti hanno raggiunto Vicoforte. Nei primi anni della repubblica c’era in Italia un partito monarchico relativamente forte che reclamava il ritorno delle salme regali e la loro traslazione al Pantheon, arrivando a immaginare una restaurazione tale da restituire la corona a Umberto II, che fino alla morte nel 1983 aspetterà invano la sua ora nell’esilio portoghese di Cascais.
Poi pian piano la nostalgia monarchica scompare dal panorama ideale e politico, riducendosi all’ostinazione più o meno folkloristica di pochi irriducibili, a loro volta divisi fra chi parteggia per la linea dinastica dei Savoia, considerando re in pectore dapprima Umberto, quindi il nipote omonimo di Vittorio Emanuele, e chi invece attribuisce la dignità sovrana al ramo collaterale dei duchi d’Aosta, molto meno compromessi con il fascismo. Ma ormai si tratta di dibattiti fra pochi intimi, tanto che nel 2002 il parlamento italiano può tranquillamente abrogare la norma transitoria della Costituzione che vietava ai discendenti di sesso maschile dei re d’Italia l’ingresso nel territorio nazionale. La norma era stata inserita nella legge fondamentale per evitare che si organizzassero manifestazioni monarchiche attorno ai pretendenti al trono. Ma ormai da tempo la forma repubblicana dello Stato si è consolidata e l’ombra della restaurazione è definitivamente scomparsa dall’orizzonte politico.
Siamo ai primi anni del terzo millennio, oltre un secolo è passato dall’ascesa al trono del penultimo re d’Italia. Il principe di Napoli, come era stato chiamato per sottolineare l’impegno unitario della corona, aveva trent’anni in quella torrida estate del 1900, quando a Monza l’anarchico Gaetano Bresci volle vendicare le politiche repressive degli anni precedenti uccidendo il re Umberto I. Automatica la successione ereditaria, e così il piccolo principe schivo e introverso, che si dilettava di numismatica e adorava immergersi nel fragore delle grandi manovre militari, divenne il terzo sovrano del regno d’Italia. Quattro anni prima aveva sposato Elena di Montenegro: un matrimonio fortemente voluto dalla madre del principe, la regina Margherita, e dal governo di Roma per ragioni insieme eugenetiche e diplomatiche. Si trattava da un lato d’interrompere la consuetudine delle nozze fra consanguinei (la stessa Margherita era cugina del marito Umberto) migliorando la struttura genetica della dinastia, dall’altro di sottolineare, facendo della principessa montenegrina la futura regina d’Italia, l’attenzione italiana all’area balcanica.
Fu una coppia tutt’altro che mondana. A re Vittorio non interessava la vita di società, preferiva studiare le sue monete (è autore di un ponderoso trattato sulla numismatica italiana) e seguiva con solenne distacco le vicende della politica. Lo faceva sulla falsariga dello statuto che a suo tempo il bisnonno Carlo Alberto aveva introdotto nel regno di Sardegna, nucleo originario della futura Italia unita, mettendolo al passo con i tempi. Re costituzionale, almeno fino a quando ritenne di rassegnarsi all’irruzione sulla scena del fascismo. Eppure l’esperienza della prima guerra mondiale aveva promosso la sua immagine rendendola popolare: il «re soldato» amava trattenersi al fronte, spesso ispezionava le prime linee spingendosi fino alle trincee avanzate.
Era un uomo coraggioso: scherzando sulla sua bassa statura, un metro e cinquantatré, diceva di considerarsi un bersaglio assai difficile da centrare. Era anche piuttosto permaloso: quando suo cugino, il duca Amedeo d’Aosta che era alto quasi due metri, osò definire la coppia reale «Curtatone e Montanara», con beffardo riferimento non solo alla storica battaglia ma anche alla statura del re e alla rustica provenienza della regina, lo bandì dalla corte, quasi a confermare gli antichi dissapori fra i due rami della dinastia. Quel tratto fisico non cessava di perseguitarlo: lo chiamavano «Sciaboletta» perché era stata realizzata per lui un’arma di ridotte dimensioni, che potesse cingere senza che passando in rassegna le truppe o in altre circostanze formali strisciasse rumorosamente sul terreno.
Il destino ha voluto che quest’uomo così ritroso, di poche parole che spesso pronunciava in piemontese, fosse confrontato alle vicende di uno dei secoli più cruenti della storia.
Le sue scelte rivelano un’impronta di fatalistica inerzia. Avrebbe potuto stroncare il fascismo sul nascere, ma non volle saperne di mobilitare l’esercito: non lo fece per sfuggire alla responsabilità di scatenare una guerra civile. Del resto credeva che il paese sarebbe guarito presto dalla febbre squadrista, e dunque ritenne opportuno non ostacolare il governo del duce, arrivando fino ad avallare la vergogna delle leggi razziali. Con Mussolini ebbe rapporti spesso burrascosi, ma generalmente i brontolii regali erano determinati dal fatto che re Vittorio teneva più all’etichetta che all’etica. Per esempio lo faceva infuriare la condivisione con il duce del titolo di Primo maresciallo dell’Impero (io, il re, pari grado con quel plebeo!), ma dovette ingoiare il rospo. Quanto a Mussolini, più volte sollecitato da Hitler a sbarazzarsi dell’ingombrante sovrastruttura monarchica, un giorno confidò a Galeazzo Ciano che ne aveva abbastanza di quella coabitazione istituzionale, ma in fondo «il re ha settant’anni e spero che la natura mi aiuti». Alla fine Vittorio Emanuele lo fa arrestare dai carabinieri ma ormai è troppo tardi, quel gesto non può bastare per garantire al piccolo re la gloria del Pantheon.