Il pugno di ferro di Rajoy

Referendum indipendentista in Catalogna – Le misure repressive adottate dal primo ministro spagnolo per impedire la celebrazione della consultazione mostrano una deriva autoritaria allarmante
/ 25.09.2017
di Gabriele Lurati

La tregua tra Barcellona e Madrid è durata tre giorni, giusto il tempo del cordoglio istituzionale per gli attentati dello scorso 17 agosto avvenuti nel capoluogo catalano. Da allora lo scontro tra il governo catalano e l’esecutivo spagnolo si è intensificato, con un’escalation inarrestabile. Dopo la decisione della convocazione del referendum da parte della Generalitat (il governo catalano), si è assistito infatti a una serie di attacchi politici e iniziative giudiziarie contro la regione «ribelle», che non vuole rispettare il veto imposto dal governo di Madrid alla celebrazione del referendum indipendentista. Gli ultimi atti repressivi del governo Rajoy, culminati con l’arresto di una quindicina di persone (principalmente funzionari della Generalitat ma anche esponenti politici del governo regionale catalano) sono sembrati però eccessivi anche agli occhi neutrali della stampa internazionale. A Barcellona già nei giorni precedenti a queste detenzioni si criticava la svolta autoritaria del governo Rajoy, tanto che alcuni analisti catalani avevano parlato di una «deriva turca», paragonando il primo ministro spagnolo al premier turco Erdogan, in seguito alle misure intraprese da Madrid per sabotare lo svolgimento del referendum.

In effetti dall’8 settembre, giorno dell’approvazione della cosiddetta legge di «transitorietà giuridica» da parte del Parlamento catalano e che prevederebbe la celebrazione del referendum indipendentista di domenica prossima e il successivo passaggio a una «Repubblica catalana» in caso di affermazione del «sì», le contromisure adottate dal governo centrale di Rajoy non si sono fatte attendere. Dapprima l’esecutivo guidato dal leader del Partito popolare (Pp) ha presentato un ricorso al Tribunale Costituzionale, il quale ha immediatamente dichiarato illegale e sospeso la consultazione. In seguito il governo di Rajoy ha iniziato una politica repressiva finalizzata all’impedimento a tutti i costi della celebrazione del referendum. Così si è assistito a spettacoli tragicomici come quello dell’invio in massa di forze di polizia nelle tipografie catalane, dove si stavano presumibilmente stampando le schede o i manifesti elettorali in favore dello svolgimento della consultazione. 

Il pugno di ferro di Rajoy contro l’indipendentismo catalano è continuato attraverso il braccio della magistratura, che in Spagna è altamente politicizzata e, di fatto, dipende dal ministro della Giustizia. La procura ha infatti citato a giudizio tutti i sindaci catalani che appoggiano il referendum (sono ben 712 e rappresentano il 75% dei municipi della Catalogna), alcuni dei quali si sono negati a dichiarare e rischiano ora fino a 8 anni di carcere. Inoltre le stesse autorità giudiziarie spagnole hanno fatto chiudere il sito web ufficiale del referendum promosso dalla Generalitat. L’esecutivo catalano però non si è demoralizzato e ha aggirato l’ostacolo con un facile trucco, ricorrendo cioè a un server estero, che ha consentito il ripristino immediato della pagina web. Infine il governo spagnolo ha fatto leva anche sulla questione economica, decidendo di limitare i poteri dell’esecutivo di Barcellona, prendendo il controllo della sua spesa pubblica. Il ministro delle Finanze spagnolo Montoro ha sostanzialmente congelato l’autonomia finanziaria catalana con la scusa di «fare in modo che nemmeno un euro possa servire all’organizzazione del referendum illegale».

Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’arresto mercoledì scorso di quattordici persone (tra cui anche alcuni politici come il braccio destro del vicepresidente del Governo catalano e vari dirigenti della Generalitat) in quanto ritenuti i principali organizzatori del referendum secessionista. Parallelamente a queste detenzioni la Guardia Civil spagnola effettuava delle perquisizioni in numerosi uffici dell’esecutivo catalano con l’obiettivo di sequestrare le urne e altri documenti necessari per lo svolgimento del referendum. Il presidente della Generalitat Carles Puigdemont ha immediatamente denunciato una volta di più l’«atteggiamento totalitario» del governo centrale e ha dichiarato che «Madrid ha sospeso di fatto l’autonomia catalana». Migliaia di manifestanti indipendentisti sono subito scesi per le strade di Barcellona in appoggio dell’esecutivo catalano, cercando anche di ostacolare le azioni delle forze di polizia spagnole. L’indignazione è stata tale che è fuoriuscita dall’alveo del secessionismo, raggiungendo anche altri collettivi sociali come i sindacati, le scuole, le università e persino il Football club Barcellona.

Anche a Madrid si sono visti preoccupanti esempi di deficit democratico. Il municipio della capitale spagnola (amministrato da Podemos, unico partito politico nazionale favorevole allo svolgimento del referendum) aveva concesso l’autorizzazione allo svolgimento nelle proprie sale di un dibattito pubblico sul «diritto di decidere in Catalogna». Tuttavia, su istanza di un ricorso presentato dal Pp, un giudice vicino alle posizioni del partito di Rajoy ha immediatamente impedito l’organizzazione di questa conferenza in quanto ritenuta in appoggio di un evento illegale quale la celebrazione della consultazione. Tra i media spagnoli si sono lette varie critiche poiché questa misura era lesiva di uno dei principi fondamentali delle Costituzioni di tutto il mondo, quale la libertà di espressione ed è stata considerata come un ulteriore esempio della concezione liberticida dello Stato che sta applicando negli ultimi tempi il governo di Rajoy.

E proprio questo modo autoritario e inflessibile di affrontare la «questione catalana» voluto da Rajoy e dal suo partito causò l’inizio della rottura istituzionale con la Catalogna nel 2010, quando un ricorso alla Corte Costituzionale promosso dal Pp cancellò di fatto lo Statuto catalano che riconosceva la Catalogna come una «nazione». Da allora, con l’arrivo al potere nel 2011 di un governo come quello di Rajoy che ha fomentato l’anti-catalanismo in tutto il territorio spagnolo (famose sono state le campagne del Partito popolare per boicottare i prodotti tipici catalani come il cava, un tipo di spumante pregiato) e si dimostra refrattario a qualsiasi dialogo con la Catalogna, le tensioni tra Barcellona e Madrid non hanno fatto che aumentare, sfociando nelle manifestazioni moltitudinarie che ogni anno si celebrano in occasione della festa catalana della Diada dell’11 settembre o durante il precedente referendum del 9 novembre 2014 (dichiarato a posteriori illegale dalla Corte Costituzionale e per il quale l’ex presidente del governo catalano Artur Mas è stato condannato all’inabilitazione dalle cariche pubbliche per due anni).

Anche giornali internazionali influenti come il «Financial Times» non hanno lesinato le critiche alla gestione della «questione catalana» fatta da Rajoy. Secondo il giornale britannico, il primo ministro spagnolo sarebbe colpevole di essersi sempre rifiutato anche solamente di discutere con i catalani e prendere in considerazione una via di mezzo tra lo status quo dettato dalla Costituzione spagnola e l’indipendenza voluta da una parte dei catalani (circa il 50%).

Una maggiore autonomia fiscale (magari sul modello basco) e maggiori competenze territoriali avrebbero potuto risolvere la questione molto prima di arrivare allo scontro politico permanente e allo svolgimento di un nuovo e probabilmente inutile referendum. Lo stesso quotidiano economico peraltro è giustamente critico anche con gli indipendentisti catalani. In effetti il referendum di domenica prossima, oltre che essere privo di legittimità giuridica, è stato organizzato senza definire nemmeno una percentuale minima di partecipazione per definirne la sua validità. Teoricamente quindi una esigua fetta di votanti catalani favorevoli all’indipendenza potrebbe decidere sul futuro dell’intera regione e in 48 ore dichiarare la nascita della «Repubblica catalana».

Questo nuovo referendum, se mai si svolgerà, servirà più che altro quindi per misurare la forza di cui dispongono gli indipendentisti in vista di una nuova fase delle relazioni con il governo di Madrid e possibili elezioni regionali anticipate. Uno degli scenari possibili a partire dal 2 ottobre è infatti quello di sfruttare il traino dell’effetto referendum per celebrare delle nuove elezioni in Catalogna. Secondo gli analisti, il successo del «sì» è dato per scontato. Se la partecipazione fosse superiore a quella del 2014 (quando votarono 2,3 milioni di catalani) e il risultato fosse plebiscitario, l’indipendentismo sarebbe pronto per un nuovo «round» dello scontro tra la Catalogna e la Spagna.