Cosa rischia la Cina, cosa rischiano il resto del mondo e l’economia globale, per effetto dell’epidemia del coronavirus? Nella migliore delle ipotesi fra tre mesi saremo fuori dal tunnel e il bilancio dei danni sarà stato contenuto in termini ragionevoli. Come nel caso della Sars, 17 anni fa. Nella peggiore delle ipotesi… In realtà nessuno può formulare la peggiore delle ipotesi, perché ogni epidemia è un caso a parte. Tuttavia abbiamo dei precedenti storici su cui ragionare. Il più apocalittico, che cito solo come una «curiosità» storica, è la cosiddetta influenza spagnola che nel 1918-19 fece 50 milioni di morti, un’ecatombe molto superiore alle vittime della Prima guerra mondiale. Altri tempi, in cui la medicina non aveva gli strumenti di oggi.
Un paragone vale, però. La spagnola si chiama così non perché sia nata in Spagna, né perché abbia infierito con particolare violenza su quel Paese. In realtà l’epidemia scoppiò altrove e fece più vittime in altri paesi, dalla Francia agli Stati Uniti. Ma a causa della guerra tutti avevano leggi speciali per censurare la stampa e nascosero a lungo il flagello dell’influenza virale. Che divenne di dominio pubblico solo quando ne morì il re di Spagna, Alfonso XIII. La Spagna era neutrale e da lì cominciarono a diffondersi le informazioni.
Questo ci ricorda un punto debole nella risposta cinese: com’era accaduto nel 2003 con la Sars, anche stavolta nella Repubblica Popolare le notizie sul coronavirus sono state nascoste. Nel 2003 ci fu una censura che fece ritardare i provvedimenti sanitari di ben tre mesi, questa volta forse il ritardo è stato «solo» di un mese. Ma tutto ciò che sta facendo Xi Jinping viene visto con sospetto da una popolazione abituata a ricevere notizie manipolate dalla propaganda di regime.
Alcune proteste di cittadini cinesi che sono riusciti ad aggirare le barriere della censura, evocano addirittura una «sindrome Cernobyl», dal nome della catastrofe nucleare che avvenne in Unione sovietica nel 1986, fu a lungo nascosta dalle autorità, e in qualche modo segnò «l’inizio della fine» per il regime comunista. Il paragone è eccessivo, sotto ogni punto di vista: dal bilancio delle vittime alle colpe del governo. Però anche l’esagerazione è indicativa; quando una società non ha mezzi di esprimere le proprie critiche liberamente e pubblicamente, è come una pentola a pressione senza valvola di sfogo.
Le pandemie virali di origini suino-aviarie tendono a nascere in Cina da secoli, per ovvie ragioni: da nessun’altra parte al mondo esiste un laboratorio patogeno così grosso, un bacino umano e animale spesso promiscuo, in condizioni igieniche tuttora scadenti, dove la natura può sperimentare ogni sorta di contagio. La Cina di oggi ha 1,4 miliardi di abitanti, e nonostante la modernizzazione conserva alcune tradizioni antiche incompatibili con la prevenzione delle epidemie: in particolare i cosiddetti «mercati umidi», cioè i mercati all’aperto, dove sulle bancarelle dei venditori ci sono sia carni macellate, sia animali vivi. Tra questi ultimi abbondano selvaggine di ogni genere, inclusi gli animali che possono trasmettere virus all’uomo (per il coronavirus sono stati identificati diversi sospetti, dal pipistrello allo zibetto).
Ho un ricordo personale della Sars: il 2003 era l’anno del mio trasloco dalla California alla Cina, che dovetti rinviare. La differenza evidente rispetto al 2003 riguarda la dimensione della Cina e quindi l’impatto sulle nostre economie. 17 anni fa era solo la quarta economia mondiale, oggi è la prima a parità con l’America. La sua dimensione si è praticamente quadruplicata. Poiché siamo in pieno panico iniziale da coronavirus, con i casi di contagio che salgono di giorno in giorno anche al di fuori del focolaio originario (provincia dello Hubei, 35 milioni di abitanti, Cina centrale) e le previsioni sono impossibili, ecco alcuni elementi per stare all’erta senza eccedere nel pessimismo.
Differenze dal 2003, in negativo: la crescita cinese stava già rallentando per altre ragioni, prima delle misure eccezionali prese da Xi Jinping. Nei mesi precedenti il coronavirus abbiamo avuto la guerra dei dazi, la crisi di Hong Kong, la peste suina, tre fattori di rallentamento della crescita del Pil (al 6,1% nel 2019 cioè la crescita più debole da 30 anni). Ora si aggiungono i blocchi imposti al traffico che hanno già fatto calare del 42% i viaggiatori in aereo e in treno. La chiusura di luoghi pubblici (dalla Grande Muraglia alla Città Proibita fino alla Disneyland di Shanghai) e di molte catene di ristorazione (MacDonald e Starbucks nella provincia dello Hubei, fra le straniere) fanno prevedere un pesante calo dei consumi interni in un periodo dell’anno in cui i cinesi spendono molto: il loro Capodanno lunare equivale al nostro Natale, anche per i regali. Altra aggravante rispetto al 2003: oggi la Cina ha un’economia più matura e di conseguenza i consumi pesano molto di più di 17 anni fa, oggi sono circa il 60% del Pil. La frenata nelle spese delle famiglie sarà sentita di più.
Ne risentiremo anche noi: il turismo cinese è addirittura 7 volte superiore al 2003, è una fonte di entrate importanti in molti paesi occidentali oltre che asiatici; il lusso italiano o francese secondo uno studio di Bain & Co. ricava il 35% del fatturato da clienti cinesi, molti dei quali fanno shopping durante i viaggi all’estero. Una stima Standard&Poor: un calo del 10% nel turismo provocherebbe un taglio dell’1,5% nella crescita del Pil. Molte multinazionali stanno limitando i viaggi da e per la Cina; o addirittura hanno chiuso le proprie filiali locali affinché i dipendenti restino a casa ed evitino il contagio negli uffici.
Dalla Apple alla Ford, è lungo l’elenco di fabbriche chiuse e di multinazionali che devono correre ai ripari perché la loro catena produttiva e logistica è interrotta, mancandovi l’anello cinese che rimane essenziale in moltissime produzioni. British Airways è stata la prima compagnia aerea a sospendere tutti i voli per la Cina intera, poi l’hanno imitata Lufthansa, Swiss, Austrian ed altre; molte aziende prolungano le vacanze del Capodanno Lunare per ritardare il ritorno dei dipendenti. Tutto questo ha un costo economico. Recuperabile, almeno in parte, quando l’emergenza sarà passata.
Non esageriamo però l’impatto economico delle epidemie. La Sars del 2003 tolse due punti di crescita al Pil cinese (dall’11,1% al 9,1%), ma solo per un trimestre. Uno studio della banca JPMorgan sull’impatto per le Borse delle maggiori epidemie mondiali negli ultimi vent’anni indica che in media un mese dopo il picco del contagio i mercati hanno già più che recuperato le perdite. Tra coloro che potrebbero trarne qualche vantaggio c’è Big Pharma: quattro multinazionali farmaceutiche (AbbVie, Johnson & Johnson, Gilead Sciences e Merck) hanno già inviato medicinali in Cina per sperimentare l’eventuale efficacia di prodotti già esistenti. Peraltro molte multinazionali americane che operano in Cina ne stanno approfittando per un’operazione di relazioni pubbliche all’insegna della riconciliazione: Microsoft, Dell, Cargill sono fra le prime ad aver annunciato donazioni e aiuti. Ci sarà un impatto politico del coronavirus?
Nella popolazione cinese crescono di giorno in giorno le proteste sui social media, per adesso se la prendono soprattutto con le autorità locali dello Hubei per i ritardi nell’informare e reagire all’epidemia; nonostante la censura anche il governo centrale viene preso di mira. Xi Jinping si sta giocando, all’interno e all’estero, la sua credibilità di leader efficiente e decisionista. Il sistema sanitario cinese non ha fatto gli stessi progressi di altri settori come le infrastrutture. Gli stessi media governativi non possono cancellare immagini di un sistema ospedaliero che appare sopraffatto dalla crisi. La corsa al primato scientifico-tecnologico nella gara con l’America deve tradursi nella capacità di dare benefici alla collettività, per esempio nelle cure mediche.
In quanto al rallentamento della crescita che già preoccupava Xi Jinping prima del coronavirus, fino alla fine dell’anno scorso i rimedi già varati erano soprattutto di natura monetaria (più liquidità dalla banca centrale). La tregua con gli Stati Uniti o «accordo di fase uno» ha ridotto la tensione e doveva parzialmente attutire i danni del protezionismo, prima che intervenisse lo shock-coronavirus. Adesso c’è chi vede la crescita cinese scendere sotto il 5% che sarebbe una soglia pericolosa per un regime che genera consenso attraverso il benessere.
La posta in gioco politica è importante, e anche se viene dopo quella sanitaria le due dimensioni sono strettamente legate. Questo spiega anche il comportamento altalenante delle autorità cinesi. Prima c’è stato il solito riflesso, tipico dei regimi autoritari: nascondere le cattive notizie; proprio come l’Iran aveva fatto inizialmente dopo l’abbattimento del jet ucraino, o l’Urss dopo Chernobyl. Non sappiamo – forse non sapremo mai – quanto la colpa del ritardo sia da attribuire esclusivamente alle autorità locali, nella logica per cui i gerarchi di periferia non vogliono «perdere la faccia» verso i loro capi di Pechino. Certo il sindaco di Wuhan viene considerato un irresponsabile, perché tra l’altro organizzò una festa pubblica con alcune migliaia di partecipanti, a contagio già iniziato.
Lui stesso ha offerto di dimettersi, accettando di fare il capro espiatorio. Dopo il silenzio iniziale, Xi forse esagera nel senso opposto? Aver messo «in quarantena» 56 milioni di persone è un’operazione senza precedenti nella storia. C’è il rischio di un effetto negativo: più le misure sono estreme e provocano disagi, più cresce la voglia di aggirarle. Tanto più in una popolazione che nutre diffidenza verso il governo. La natura draconiana delle misure decise da Xi dà l’idea dell’importanza di questa sfida: il suo regime paternalistico, tecnocratico, meritocratico ed efficientista, fonda la propria immagine e legittima i propri metodi illiberali grazie ai risultati. In questo caso non può permettersi di sbagliare.