Il prezzo della follia di Putin

L’equilibrio del mondo sprofonda sotto i colpi delle bombe russe in Ucraina. Intanto l’Occidente scopre di aver sottovalutatoil risentimento post imperiale che stava crescendo al Cremlino e soprattutto di non avere strumenti per affrontarlo
/ 28.02.2022
di Anna Zafesova

Un giorno gli storici ricostruiranno cosa si è rotto nella testa di Vladimir Putin in quelle poche ore che sono trascorse tra la sua promessa al mondo di ritirare parte delle truppe russe dal confine con l’Ucraina, e affidare alla diplomazia il proseguimento del negoziato strategico con l’Occidente nonostante le divergenze, e le bombe che sono piovute sulle città ucraine. Missili lanciati da oltre confine, caccia ed elicotteri che scagliano sventagliate contro caserme e case, razzi multipli contro quartieri residenziali, carri armati che sfondano il confine: una guerra, una guerra vera, come quelle che l’Europa ormai vedeva soltanto nei film. Un’invasione che, forse per coincidenza, forse per intenzione, inizia giovedì scorso poco prima dell’alba, e la resistenza ucraina fa subito sua la vecchia canzone sovietica «alle quattro hanno bombardato Kiev, ci hanno detto che è iniziata la guerra». Mentre il presidente Volodymyr Zelensky non esita a paragonare gli invasori russi ai nazisti nel 1941.

È uno shock per tutto il mondo, le bombe che piovono sulle città pacifiche senza preavviso e senza pretesto, e le parole con le quali Vladimir Putin le giustifica, in un appello televisivo che parte in contemporanea con il Consiglio di sicurezza dell’Onu convocato dall’Ucraina. Summit aperto dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres con l’esortazione al capo del Cremlino: «Fermi la guerra!». I missili, però, sono già decollati e segnano la rottura definitiva della Russia di Putin con ogni pretesa di partecipare a un ordine internazionale condiviso. Il rappresentante di Mosca al Palazzo di vetro rifiuta la parola «guerra», per il Cremlino si tratta di una «operazione militare speciale». Il ministro degli Affari esteri russo, Sergej Lavrov, apostrofa duramente la presa di posizione contro la Russia di Guterres affermando che aveva il dovere di «restare imparziale».

L’equilibrio del mondo sprofonda sotto i colpi delle bombe russe e le ragioni di Putin non lasciano speranza che possa venire ricostruito. Il presidente russo abbandona qualsiasi ambiguità e sfoggia il suo pensiero neo-coloniale e imperiale. Gli Stati Uniti e i loro alleati sono «l’impero della menzogna» che vuole «distruggere i nostri valori famigliari tradizionali», la Nato ha «superato la linea rossa», l’Ucraina è una colonia americana «governata da una giunta nazista». Che l’adesione di Kiev alla Nato non era nemmeno all’orizzonte, che l’Ucraina vuole aderire all’Unione europea, sembra non interessargli. Come del resto il fatto che Zelensky è un ebreo russofono votato soprattutto in quell’est dove si parla russo, che oggi il Cremlino considera vittima di «genocidio». La verità o anche la sua parvenza non hanno più nessuna importanza rispetto alla narrativa orwelliana del Cremlino. Cremlino che non riesce più a trovare nessuna spiegazione razionale, di interessi politici, di giochi strategici: non c’era nulla che giustificasse questo attacco senza avvertimento, che non si limita a tutelare le enclave separatiste filo russe riconosciute da Mosca appena due giorni prima.

Putin non nasconde infatti il suo obiettivo: cambiare regime in Ucraina, distruggere la sua capacità difensiva e insediare un governo amico, che vorrà accettare – di propria volontà o sotto la minaccia delle bombe – di rinunciare alla linea euroatlantica, insieme a una serie di territori che il capo del Cremlino definisce «storicamente russi», in primo luogo la Crimea annessa nel 2014. Il prezzo pagato è enorme: già nei primi minuti la borsa russa – e quindi le aziende di Stato affidate agli amici di Putin – perde metà del suo valore, le sanzioni piovono da Washington e Bruxelles, ma alle misure dei governi si aggiungono iniziative di privati. Dai consigli di amministrazione delle società russe è una fuga di consiglieri altolocati reclutati tra i politici europei, molti produttori di software bloccano il funzionamento dei loro prodotti in Russia, alcuni paesi sospendono i visti per i russi e il boicottaggio di eventi culturali e sportivi legati a Mosca diventa un fenomeno globale.Anche alleati e simpatizzanti sono costretti a voltare le spalle al Cremlino, mentre in patria insorge una protesta che, considerato il livello delle repressioni dello scontento degli ultimi mesi, è quasi sorprendente. Lettere aperte di scienziati e artisti, profili Instagram di attori e cantanti, proteste di giornalisti e conduttori televisivi – che sanno di rischiare come minimo il lavoro – si aggiungono ai russi comuni che osano scendere in piazza nonostante un anno di repressioni o dissentire sul web. Elena Kovalskaya, direttrice del centro teatrale Meierkhold, si dimette con le parole: «Non prendo lo stipendio da un assassino». Atti di grande coraggio applauditi in silenzio da un’opinione pubblica che sembra contraria alla guerra ma ha paura di esprimerlo pubblicamente. Anche perché la lotta per la pace diventa subito la bandiera del detenuto politico numero uno in Russia, il leader dell’opposizione Alexey Navalny, che prevede un ulteriore impoverimento dei russi comuni e un isolamento del paese, sostenuto soltanto da Cuba, Nicaragua, Siria, Iran e Venezuela.

Un isolamento che appare un fallimento definitivo per un leader che aveva esordito come quello che voleva portare la Russia verso l’Europa e la Nato, e farle riguadagnare lo status di potenza. Una exit strategy appare poco probabile, mentre sul web russo circolano video – tutti da verificare – di rottami di razzi multipli sparati contro quartieri residenziali, un atto che, se dimostrato, vale una incriminazione per crimini di guerra. Ma il presidente russo sembra vivere un trionfo. Le guerre finora l’hanno sempre premiato nei sondaggi e, dopo la crescita dello scontento degli ultimi anni, tra il popolo come tra le élite, ha ridotto al silenzio tutti, anche perché in un paese isolato e sotto sanzioni gli oligarchi dipendono ancora di più dallo Stato. E lo Stato è lui, in quel sistema quasi monarchico che ha costruito, e che gli permette di lanciare una guerra folle, che segnerà probabilmente la fine del suo regime, ma forse anche di due paesi dell’Europa (tre se si conta la Bielorussia di Aleksandr Lukashenko che si è prestata a fare da base per l’invasione russa).

L’Occidente intanto scopre con orrore di aver sottovalutato il risentimento post imperiale che stava crescendo al Cremlino, e soprattutto di non avere strumenti per affrontarlo: la diplomazia, arte del negoziato e del compromesso, per la sua stessa natura non può che essere razionale, mentre nella (auto)distruzione russa si intuisce quella follia che sintetizza per tutti Milos Zeman. «I pazzi vanno isolati», dice il presidente della Repubblica Ceca, che finora Mosca annoverava tra i suoi amici.