Il potere al tempo di Big Data

Spionaggio politico – Dal Russia-gate, ossia i legami misteriosi fra Trump e Putin, allo scandalo Cia che ha sviluppato nuovi sistemi di hackeraggio ma non è stata in grado di proteggersi da Wikileaks
/ 13.03.2017
di Federico Rampini

Si è dovuto attendere fino all’8 marzo per vedere la prima mossa un po’ «distensiva» di Donald Trump sul Russia-gate, dopo un’escalation di sospetti, accuse e contro-accuse infamanti, con sullo sfondo l’imminente avvio di un’indagine parlamentare. Almeno la nomina del nuovo ambasciatore americano a Mosca, annunciata la sera dell’8, sembra essere fatta per placare gli animi. Trump vuole mandare in Russia Jon Huntsman, imprenditore di religione mormone, ex governatore dello Utah, ex candidato alla nomination presidenziale repubblicana nel 2012 (eliminato da un altro mormone, Mitt Romney).

La scelta fatta da Trump appare abile, quasi bipartisan. Perché Huntsman pur essendo repubblicano è così moderato che Barack Obama lo volle anche lui ambasciatore: in Cina. Viene ricordato come un diplomatico abile, in parte aiutato dalla sua profonda conoscenza della Repubblica Popolare (parla il mandarino). Della Russia non è altrettanto esperto, però Huntsman porta con sé il bagaglio di moderazione, indipendenza, lealtà verso Obama. È una scelta quasi sorprendente alla luce di quanto accaduto pochi giorni prima, quando Trump arrivò a diffamare personalmente Obama («persona cattiva o malata») in un tweet in cui lo accusava di avere ordinato intercettazioni illegali sul telefono privato della Trump Tower. La scelta di Huntsman certo non basta a diradare la fitta nebbia di sospetti sul Russia-gate o Putin-connection, sui legami stretti e misteriosi fra l’entourage di Trump e la Russia. Di quello si occuperà la commissione d’inchiesta che il Senato dovrebbe mettere in piedi.

Di tutt’altro tenore era stato il weekend precedente. Quando proprio contro Obama l’attuale presidente aveva lanciato via Twitter un’accusa enorme: intercettazioni illegali sul suo telefono privato «come Nixon/Watergate». L’allusione nel tweet di Trump si riferiva allo scandalo che costò la presidenza a Richard Nixon nel 1974: allora il presidente repubblicano aveva davvero organizzato un’operazione di spionaggio illegale ai danni dei suoi rivali democratici. Dovette dimettersi per evitare l’impeachment.

È il tentativo di ribaltare lo scandalo che ha messo Trump in difficoltà. Due mesi dopo il suo insediamento ha dovuto sbarazzarsi del suo consigliere per la sicurezza nazionale, il generale Flynn, che aveva mentito sui suoi contatti con l’ambasciatore russo. Poi il neo-segretario alla Giustizia, Jeff Sessions, ha dovuto ricusarsi dalle indagini sulla Putin-connection: perché lui stesso ebbe contatti con il diplomatico russo e dunque è nella posizione d’indagato potenziale in un’inchiesta che dovrà essere condotta dal suo dicastero.

Infine il Russia-gate coinvolge il «cerchio magico» dei famigliari, il primo genero Jared Kushner, elevato al rango di consigliere e influentissimo insieme alla moglie Ivanka. Pure lui tesseva una rete di contatti coi russi. Quel grande «inciucio» coi rappresentanti di Mosca rilancia l’alone di sospetto sulla campagna elettorale, nella quale gli hacker russi violarono i siti del partito democratico per diffondere veleni su Hillary Clinton. Torna su Trump l’immagine malefica del «Manchurian Candidate», favorito da una potenza straniera. Molti repubblicani sono in imbarazzo: hanno un debito di potere verso Trump, ma non sono mai stati filo-russi.

Perciò Trump ha reagito con quel feroce attacco a Obama, l’unico presidente della storia recente a non essere mai stato lambito personalmente da scandali di alcun tipo. Trump ha lanciato la sua accusa infamante contro Obama senza prove, se non un articolo apparso sul sito Breitbart: officina delle fake-news, diretto fino a poco tempo fa da Stephen Bannon, l’ideologo di estrema destra che è l’eminenza grigia del presidente. Breitbart a sua volta ha ripreso una teoria del «golpe silenzioso in atto contro Trump e ordito dai servizi segreti», lanciata da una radio di estrema destra. È il metodo Trump in azione: diffondere via Twitter voci incontrollate, che comunque hanno effetti deflagranti nel discorso pubblico. E distolgono l’attenzione dal vero scandalo. Di vero c’è che il controspionaggio vigilò sui contatti fra i collaboratori di Trump e la Russia, perché questo è un dovere dell’intelligence: verificare se nell’entourage di un candidato presidenziale ci siano infiltrazioni e influenze di una potenza straniera. Nulla a che vedere con il Watergate.

La storia si ripete. Trump fece le sue prove generali pre-candidatura nel 2012 lanciando la menzogna su Obama nato in Kenya, quindi ineleggibile e impostore. Allora Trump era solo un affarista e uno showman. Più di recente, una volta eletto, ha attribuito lo scarto di voti assoluti in favore di Hillary a «milioni di brogli» (zero prove; ampie smentite anche da destra).

Ma la fortuna – o qualcosa di simile – ha distolto l’attenzione dalla menzogna di Trump: WikiLeaks ha pubblicato una nuova ondata di rivelazioni sui metodi di hackeraggio della Cia. Un altro colpo all’intelligence Usa, proprio mentre è sfiduciata apertamente dal suo presidente. Un’altra fuga di notizie che oggettivamente indebolisce l’America, a conferma dei sospetti che WikiLeaks agisca «a senso unico» (mai contro Vladimir Putin). E un pizzico di veleno sul bilancio di Barack Obama, perché queste rivelazioni riguardano cose accadute negli ultimi tre anni della sua presidenza.

La nuova ondata di rivelazioni di WikiLeaks, su come la Cia può usare «l’Internet delle cose» (tipo i sensori della tv di casa) per spiare il mondo intero, non poteva capitare in un momento più delicato per l’agenzia d’intelligence. Visto dagli Stati Uniti il potenziale risvolto di politica interna è perfino più grave delle ripercussioni internazionali. In questo momento la Cia è sotto tiro, Trump l’ha attaccata pubblicamente, violentemente: cosa mai vista prima nella storia degli Stati Uniti. Ciò che l’attuale presidente non perdona alla Cia, così come all’Fbi, è di avere indagato nel 2016 sul Russia-gate. Va ricordata quell’uscita memorabile per la sua durezza, quando Trump volle denigrare le rivelazioni della Cia sul suo Russia-gate: «Questi sono gli stessi che ci raccontarono che Saddam Hussein aveva le armi di distruzione di massa».

Qualsiasi cosa possa mettere in difficoltà la Cia è gradita a Trump. In questo caso, se visto nell’ottica americana, lo scandalo non è che la Cia abbia sviluppato nuovi e sofisticati metodi di hackeraggio; lo scandalo è che l’intelligence è un colabrodo, incapace di proteggersi dalle gole profonde, da quei «leaks» (fughe) che danno il nome all’organizzazione di Julian Assange. Una delle polemiche preferite di Trump è proprio contro le gole profonde che si annidano dentro la sua amministrazione e danno notizie alla stampa. 

WikiLeaks gli ha fatto un regalo, sotto questo profilo. Un nuovo regalo, per la precisione. Fu proprio WikiLeaks il messaggero scelto dai servizi russi per disseminare in campagna elettorale tutti i segreti trafugati nei server informatici e nelle banche dati della campagna Clinton e del partito democratico. Se c’è una vera complicità, un asservimento di Assange a Putin, oppure una semplice convergenza operativa e d’interessi, chissà quando lo scopriremo. Quella parte d’America che è angosciata dalla vittoria di Trump e dal ruolo che può avervi giocato la Russia, vede ripetersi un gioco di squadra che ha già segnato le elezioni nel 2016.

Poi c’è l’aspetto che riguarda Obama e l’Europa. Parte dell’opinione pubblica europea e governi alleati da Berlino a Parigi a Roma, rimpiangono il presidente che ha concluso il suo secondo mandato a gennaio. Più Trump sembra instabile e irresponsabile, più il suo predecessore viene ingigantito nella memoria. Però WikiLeaks ci ricorda che sotto Obama lo spionaggio americano fece cose turpi agli alleati europei: intercettando perfino il telefonino di Angela Merkel.

I giganti californiani della tecnologia digitale ricordano quell’intervento di Donald Trump, alla fine della campagna elettorale, quando lui affrontò il tema della cyber-sicurezza con queste parole: «Da presidente radunerò tutti i grandi imprenditori della Silicon Valley, e loro mi aiuteranno a sconfiggere i terroristi, a rendere più sicura l’America». In realtà, qualcuno l’aveva fatto prima di lui: Obama. È molto ambigua la storia dei rapporti – talora conflittuali, talvolta incestuosi – tra i due grandi poteri: lo Stato, e le imprese più potenti del mondo che si concentrano quasi tutte in un angolo della West Coast.

Quante sono le zone d’ombra inconfessate, gli episodi di cooperazione tra i giganti digitali e il governo di Washington, nella fattispecie le sue agenzie d’intelligence? Nella Silicon Valley opera da quasi un ventennio un ramo della Cia che fa… venture capital, cioè investe capitale di rischio nelle start-up. E c’è Darpa, l’agenzia di ricerca del Pentagono, che fu all’origine dello sviluppo di Internet. Dietro gli allarmi e le proteste indignate, che cosa ci nasconde la Silicon Valley? Sullo sfondo c’è una lunga storia d’amore fra gli apparati di sicurezza degli Stati Uniti, il complesso militar-poliziesco-industriale, e il business hi-tech.

È dall’11 settembre 2001 che la comunità dell’intelligence ha imboccato una deriva verso il feticismo tecnologico, abbracciando Big Data. L’idea è che il progresso tecnologico ha moltiplicato a dismisura la capacità di raccolta dati. Solo perché la tecnologia «consente» di farlo, le agenzie d’intelligence sono convinte che «devono» farlo. Abbiamo appreso da WikiLeaks dell’esistenza di un’enorme rete globale da Grande Fratello costruita dalla National Security Agency (NSA) nel suo innamoramento per Big Data. La dimensione sconfinata di questa raccolta fa sì che bisogna parlare di meta-dati: per esempio nella stragrande maggioranza dei casi non s’intercettano i contenuti delle telefonate ma solo i numeri chiamati, che possono svelare segnali su reti di contatti.

Ma è possibile farne un uso davvero efficace? Non ci sono risorse umane per interpretare masse di dati così sterminate; anche l’intelligenza artificiale non ha dato risultati soddisfacenti: dall’attentato alla maratona di Boston, alle stragi di San Bernardino e Orlando, gli ultimi attacchi terroristici sono avvenuti nell’era di Big Data, in barba alla formidabile potenza tecnologica dello spionaggio.