Il popolo dei perseguitati

Rohingya – Per sfuggire all'apartheid attuata dalla Birmania, questa minoranza che originariamente viveva nello stato di Rakhine, cerca rifugio principalmente in Bangladesh inseguendo l’illusione di poter essere meglio accolta da un Paese, la cui popolazione è a maggioranza musulmana
/ 25.12.2017
di Francesca Marino

Innanzitutto ci sono i bambini. Bambini piccolissimi, bambini più grandi. Bambini che sorridono sempre o che piangono non appena posi lo sguardo su di loro. Bambini nudi, seminudi, vestiti con gli abiti della festa o con qualche straccetto alla buona. Bambini nati nei campi, bambini che vengono da molto lontano e si portano dentro agli occhi, o a volte nel corpo, ferite che forse non si rimargineranno mai. Sono venticinquemila i bambini senza genitori, nei campi dei rifugiati Rohingya. Venticinquemila senza genitori, altre decine di migliaia stretti come pulcini attorno a madri e nonne, in braccio a padri, sorelle e fratelli. Un esercito colorato ed eterogeneo che sciama a volte compatto a volte in rivoli come l'acqua di quel mondo, liquido a metà per la pioggia o per il mare e i fiumi, in cui si sono ritrovati a vivere.Un mondo d'acqua e di terra rossastra che diventa color dell'oro sotto il sole, un mondo di vegetazione lussureggiante e di infinite distese d'acqua che si confondono con il cielo. Un mondo sconosciuto, certo, ma un posto dove sentirsi finalmente al sicuro per ricominciare a vivere.

Le storie che raccontano, bambini, adulti o vecchi che siano, si somigliano tutte. Storie di fughe dentro alla notte, di notti illuminate dai roghi delle case e di parenti e amici trasformati in torce umane, attaccati agli alberi e arsi vivi. Storie di soldati e poliziotti e vicini che cacciano dentro i fiumi e nella boscaglia, che cacciano esseri umani e non cibo. Storie di donne stuprate, di sorelle o fratelli uccisi, di genitori rimasti sotto alle macerie della loro casa o perduti dentro alle notti buie e affannose della fuga. Raccontano di fiumi pieni di cadaveri, di barche stipate fino all'inverosimile. Raccontano di ferite, di terrore, di angoscia. Raccontano della notte che si sono lasciati alle spalle, delle urla che non smettono mai di sentire. Del giorno che sono finalmente approdati dentro a quel grigio infinito che confonde mare e cielo, di un'altra notte, una notte di quiete finalmente, in cui pian piano si smette di tremare. Di mani pietose finalmente, mani disarmate, che hanno curato le ferite del corpo, asciugato lacrime, vestito gli ignudi e consolato gli afflitti. Mani di poveri, di ricchi, di stranieri. Mani che sono arrivate da lontano, mani che vivevano dietro l'angolo e hanno diviso il loro poco con chi non aveva nulla.

È una storia difficile da raccontare, questa. Una storia che comincia da lontano, lontano nel tempo e lontano nello spazio. Comincia forse, se proprio si deve trovare un principio, quando lo stato di Rakhine, dove i Rohingya vivevano da secoli, è stato conquistato e annesso al Myanmar, da cui è praticamente separato da una catena montuosa, nel 1784. Diventato poi parte dell'impero britannico, è rimasto parte dell'allora Birmania dopo l'indipendenza. E i Rohingya si sono ritrovati stranieri nella terra in cui abitavano da generazioni. Rohingya non è in realtà un gruppo etnico, anche se si tratta di un'etnia diversa da quella dominante in Myanmar, Rohingya è un linguaggio. Una lingua molto simile al dialetto parlato nella provincia bangladeshi di Chittagong, una lingua che discende dal bengali.

Secondo una delle teorie maggiormente accreditate dagli studiosi birmani, per ovvi motivi, i Rohingya sarebbero discendenti di un gruppo di mercanti musulmani provenienti dal Bengala e stabilitisi in Rakhine durante il periodo coloniale. Secondo altre teorie, i Rohingya sarebbero invece autoctoni della provincia del Rakhine, che in Bangladesh si chiama Arakhan: la similitudine linguistica si spiegherebbe semplicemente con la vicinanza geografica.

Su queste fragili basi, sono state elaborate la teoria e le politiche di Naypyidaw: i Rohingya non sono riconosciuti come cittadini birmani ma come «stranieri residenti», senza diritti civili o legali. Non solo: sono stati fatti oggetto di una campagna persecutoria in grande stile, moschee distrutte, terre confiscate, stupri etnici e omicidi che hanno costretto alla fine degli anni Settanta più di duecentomila persone ad abbandonare il Paese e a rifugiarsi all’estero. Ai Rohingya non è permesso di viaggiare senza ottenere un permesso speciale, non gli è permesso di possedere terreni o proprietà immobiliari, sono soggetti a limitazioni del regime legale in materia di matrimoni e sono costretti a firmare, quando si sposano, un impegno a non mettere al mondo più di due figli. Sono soggetti a vere e proprie estorsioni e a lavorare in regime di semi-schiavitù alle dipendenze dell'esercito e del governo.

Al principio degli anni Novanta, in seguito all’ennesima campagna di stupri, omicidi e persecuzioni, altri duecentocinquantamila Rohingya abbandonavano la Birmania per rifugiarsi principalmente in Bangladesh inseguendo l’illusione di poter essere meglio accolti in un Paese la cui popolazione è a maggioranza musulmana sunnita. Il «vecchio» campo Rohingya, quello in cui vivono i profughi arrivati negli anni Novanta, è ormai un vero e proprio villaggio stanziale. I nuovi campi li riconosci subito: la plastica lucida dei tendoni, la terra riarsa ed esposta, senza un filo d'erba o un albero a fare ombra perché la vegetazione è stata rasa al suolo per far posto ai profughi. Un rivolo costante di profughi che arriva dello scorso anno, un rivolo diventato negli ultimi mesi una piena inarrestabile. Secondo le agenzie umanitarie, tra il 9 ottobre e il 2 dicembre 2016 sono arrivati a Cox Bazaar, in Bangladesh, ventun mila Rohingya in seguito all'ennesima ondata di violenze. Ripetutasi in grande stile nell'agosto del 2017 come ritorsione per un attentato a un check point da parte di un gruppo di militanti Rohingya.

Secondo le Nazioni Unite, il Myanmar ha praticamente raso al suolo 285 villaggi e ucciso un numero ancora imprecisato di persone. In seguito agli attacchi, dal 25 agosto in poi sono arrivati in Bangladesh circa seicentomila Rohingya, metà della popolazione totale stimata. Stimata perché nessuno sa quanti sono davvero, visto che sono stati lasciati fuori dall'ultimo censimento fatto da Naypyidaw nel 2014. L'ultima ondata di profughi, di dimensioni epiche, maggiori di qualunque ondata di profughi siriani, tanto per fare un paragone, si aggiunge ai  più o meno 230.000 Rohingya (dati ufficiali, ma si parla di cinquecentomila) che vivono già in Bangladesh: più o meno, perché di questi soltanto 32.000 sono registrati. Gli altri ci sono, ma non esistono sulla carta. Esistono però, e se la situazione rimane com'è rischiano di diventare la miccia di una vera e propria bomba sociale pronta a esplodere.

Passata la prima emergenza, difatti, cominceranno ad affiorare conflitti di non facile soluzione. Per il momento, governo e popolazione sono ancora compatti nel prestare aiuto, tutto l'aiuto possibile, ai profughi. Molti, come il sindaco di Chittagong, hanno inviato aiuti anche a titolo personale, ciascuno secondo le proprie capacità. I campi sono ben tenuti e messi su bene, checché ne pensino gli occidentali: somigliano nel bene e nel male a tutti i villaggi dei dintorni, a tutti i villaggi del Bangladesh o dell'India. Gli standard, i nostri standard, da questa parte del mondo valgono poco e bisognerebbe fare uno sforzo per capire il contesto.

Perché non manca molto al momento in cui gli abitanti della zona, passata l'ondata di compassione, cominceranno a lamentarsi: a lamentarsi, e già alcuni lo fanno, che i Rohingya accettano di lavorare per un quarto della paga corrente. A lamentare il fatto che loro non usufruiscono di prestazioni sanitarie gratuite, o di cibo distribuito ogni quindici giorni. E sono poveri, poveri quasi quanto i profughi. I profughi non hanno documenti, quindi in teoria non possono fare praticamente nulla: per guadagnare cominciano a fiorire attorno ai campi traffico di droga e prostituzione. Le donne Rohingya, già oggetto di violenza durante la fuga, vengono vendute ai bordelli di Calcutta e dintorni. Nelle prigioni del West Bengal si trovano già qualche migliaio di Rohingya. I bambini non hanno nessun posto in cui stare, non ci sono scuole, soltanto ospedali di ogni genere per rispondere alla prima emergenza: perché emergenza deve essere, e non un tentativo di riprendere la vita quotidiana.

Non solo: i conflitti che esistono anche all'interno della comunità Rohingya, passata l'emergenza primaria, riesplodono. Perché esiste un piccolissimo numero di Rohingya cristiani, e ci sono anche, a Ukhya, dei Rohingya di religione hindu: tenuti separati dai campi principali, vivono in un ex-pollaio. Sono circa cinquecento, e a parte il World Food Program che gli garantisce un sacco di riso, uno di lenticchie e una bottiglia d'olio ogni quindici giorni sono praticamente abbandonati. A sentire i loro racconti, sono scappati più che dall'esercito dai loro confratelli musulmani: il pollaio in cui vivono è stato attaccato anche giorni fa da altri Rohingya, e tre di loro risultano dispersi.

Ci sono poi alcune Ong che sono state buttate fuori dal Paese: Ong islamiche che assieme agli aiuti distribuivano materiale jihadi. In Pakistan alcuni gruppi integralisti fanno circolare da mesi, via stampa e WhatsApp, chiamate alla jihad per i fratelli Rohingya. I guerriglieri dell'Arsa, Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), il gruppo che ha attaccato il check-point in agosto, sono stati dimessi dagli ospedali e sono letteralmente scomparsi nel nulla. Nel corso degli anni è accaduto difatti quello che non era difficile prevedere: i campi profughi, abbandonati e dimenticati, sono diventati bacini privilegiati di reclutamento per vari gruppi jihadi trasformando una catastrofe umanitaria in una emergenza terrorismo. I nuovi profughi rischiano di fare la stessa fine.

Il governo del Bangladesh, praticamente, non sa cosa fare: la premier Sheikh Hasina viene definita da tutti «Mother of Humanity» e sono in molti a invocare per lei una candidatura al Nobel della Pace, ma non ha nessuna intenzione di permettere che circa ottocentomila profughi diventino stanziali. Chiede aiuto al mondo, ma il mondo, a parte inviare aiuti umanitari, ha altro a cui pensare. L'unica proposta concreta, accettata dal Myanmar, viene al momento dalla Cina, sospettata con buone ragioni di essere dietro a quella che è stata definita «una pulizia etnica da manuale»: riprendere i Rohingya, ricollocandoli però non più nello stato di Rakhine, ricchissimo di minerali ed essenziale ai progetti di connettività stradale ed economica cinesi, ma nel sud del Paese. Dove continueranno a essere profughi nel loro Paese, stranieri non residenti, ma non daranno fastidio, almeno per un po', ai progetti di Pechino e Naypyidaw.

Dove il resto del mondo potrà dimenticare, come è stato per tutti questi anni, «il popolo più perseguitato della Terra». Fino a quando parte di quei venticinquemila bambini sarà cresciuta per strada, allevata nella rabbia e nell'odio, fino a quando quei sorrisi, quelle manine e quegli occhi si trasformeranno in mani che stringono un fucile e voci che chiedono diritti negati. Fino a quando i nuovi guerriglieri cresceranno e saranno così disperati o così ingenui da fornire un pretesto al governo del Myanmar per reagire, e una nuova, grande pulizia etnica ricomincerà.