Quando Joe Biden salirà sul palco allestito per l’Inauguration Day il 20 gennaio, sotto la cupola del Campidoglio di Washington, il coronamento di mezzo secolo di carriera politica sarà per lui anche il remake di un film già visto. Più di un film, in verità. Quella scenografia, quella cerimonia, in quel luogo, sono un déjà-vu per il 78enne che si appresta a diventare il 46esimo presidente degli Stati Uniti. Da vicepresidente di Barack Obama, per due volte nel gennaio 2009 e nel gennaio 2013 ha partecipato come un comprimario alla stessa inaugurazione. Quella del 2009 aveva una triste analogia: anche allora come oggi la nuova presidenza democratica ereditava da un’Amministrazione repubblicana un’economia stremata da una tremenda recessione; nel 2008-2009 veniva definita «la crisi più grave dopo la Grande Depressione degli anni Trenta», un record che rischia di esserle sottratto proprio dal disastro del 2020. Biden penserà intensamente a quest’ironia della sorte: il destino sembra condannare i democratici come lui a «riparare» un meccanismo economico e sociale schiantato da uno shock sotto il governo altrui.
Ma la sua memoria risale inevitabilmente più indietro nel tempo. Dopotutto, Biden iniziò a fare politica in un’epoca più vicina a quella dei presidenti Calvin Coolidge (1923-29) e Herbert Hoover (1930-33) che non al mondo del 2021. Ecco altri due presidenti repubblicani, Coolidge e Hoover, che lasciarono in eredità al democratico Franklin Roosevelt un’America devastata, impoverita e impaurita da una calamità economica. Biden dunque ripenserà al gennaio del 2009 – quando Obama stava per consegnargli la responsabilità di gestire il salvataggio dell’industria automobilistica americana – ma anche al marzo del 1933.
Franklin Roosevelt s’insediò alla Casa Bianca a un’epoca in cui la transizione era ancora più lenta – incredibilmente, assurdamente protratta dall’Election Day di novembre fino a marzo – e pure lui ebbe rapporti tesi, cooperazione minima con il suo predecessore repubblicano. I paragoni con Roosevelt sono anche personali, intimi e dolorosi. FDR, il leader del New Deal, apparteneva a un mondo in cui la classe dirigente pagava di persona, mandava i figli a morire in guerra. Biden ha sofferto lo stesso destino tragico in tempi molto diversi, quando il patriottismo è sbeffeggiato dalla sinistra, e manipolato da una destra dove George W. Bush e Donald Trump s’imboscarono come tanti privilegiati per non andare al fronte.
La profondità storica darà a Biden una prospettiva inedita su questo Inauguration Day. Anomalo come lo è stata la figura di Trump e il quadriennio di governo nazional-populista; però meno anomalo di quanto si creda. Dall’alto dei suoi 78 anni, Biden ha la saggezza e le letture utili per ricordare che la storia degli Stati Uniti aveva conosciuto altre insurrezioni populiste (più spesso di sinistra); altri isolazionismi in politica estera. Chi si straccia le vesti oggi lamentando la polarizzazione, la lacerazione, la delegittimazione reciproca tra le due Americhe, o è in malafede o è troppo giovane. Biden no, lui ricorda di aver esordito in politica nell’America ferita dalla guerra del Vietnam, dall’esplosione di tensioni razziali, dai primi segnali di una de-industrializzazione che infieriva contro la classe operaia (all’epoca era la concorrenza giapponese a mettere in ginocchio il Midwest).
I media hanno la memoria corta e sono sempre sull’orlo di una crisi isterica per tener su la loro audience, ma Biden ha lo sguardo che abbraccia i tempi lunghi. Sa anche di essere arrivato finalmente al traguardo di una vita – dopo due tentativi falliti malamente – sull’onda di una mezza vittoria o mezza sconfitta. Non c’è stata la riconquista del voto operaio, e questo pesa sul vecchio Joe che si sente vicino all’America delle fabbriche. Non gli è riuscita l’operazione per la quale lui si era sentito più adatto di Hillary nel 2016: ricostruire il legame storico tra il partito democratico e le classi lavoratrici. Se c’è una ragione per cui l’ombra di Trump aleggia su questo Inauguration Day, sono i numeri di Election Day. In percentuali Trump ha difeso bene le sue posizioni, in numeri assoluti ha conquistato 10 milioni di voti in più rispetto al 2016. Biden ha vinto alla grande tra i laureati.
Ma Trump è andato perfino meglio che nel 2016 tra gli operai, ha conquistato consensi tra gli ispanici, tra gli afroamericani. Biden ha un vantaggio generazionale: è vaccinato dall’età e dai capelli bianchi contro il «politically correct» delle élite costiere, degli intellettuali radicali che liquidano 73 milioni di elettori trumpiani come dei cripto-fascisti o dei razzisti o degli «utili idioti che votano contro il proprio interesse». Biden sa che aver regalato alla destra la rappresentanza dei lavoratori – operai tradizionali o nuovo precariato, maschi bianchi o ex-immigrati per nulla attratti dalla sinistra «no-border» – è un errore strategico da affrontare con una lunga terapia. Ma non sa se avrà i mezzi per farlo.
Dopo la pandemia, dopo la depressione economica, la terza ombra inquietante che si allungherà su di lui in questo Election Day sarà politica: il 46esimo presidente agguanta il potere esecutivo in condizioni precarie, con un capitale politico esiguo, margini di manovra ridotti, un’opposizione forte, una sinistra spaccata. È una vita che Biden sogna questo Inauguration Day, eppure non poteva immaginarselo in condizioni peggiori.
Un pezzo del partito democratico non condivide quasi nulla delle promesse dell’ala sinistra: Green New Deal, legalizzazione degli immigrati clandestini, forte aumento delle tasse sulle imprese. Lo stesso Biden si era convertito in modo tiepido all’agenda più radicale solo per tenere insieme il suo partito durante la gara della nomination, le primarie, e lo scontro con Trump. Negozierà compromessi con il centro politico – i moderati dei due partiti – per rilanciare la crescita economica e ridurre la disoccupazione. Pragmatismo rooseveltiano, stile New Deal ma senza riforme di quella audacia: Biden dovrà sperimentare tutto il possibile per uscire da un tunnel che è quello della pandemia+recessione.
Al tempo stesso l’America ha bisogno di uscire da altri tunnel. Quello di una campagna elettorale isterica da ambo le parti, che ha lasciato rancori, voglia di vendette. Una campagna elettorale interminabile e sempre sul punto di ricominciare, quasi uno scenario da Groundhog Day (il film Ricomincio da capo con Bill Murray, del 1993). Fra meno di due anni arrivano le elezioni di mid-term, in cui sarà di nuovo in palio la maggioranza al Congresso. E se Trump conferma la sua candidatura per il 2024 possiamo già considerare iniziata la prossima campagna presidenziale. Mentre l’America cerca di uscire dal clima di «guerra civile a bassa intensità» che assorbe tanta parte delle sue energie, è costretta a prendere atto che il mondo non aspetta.
Una parte del mondo è partita in una fuga in avanti, in ripresa dall’estate scorsa, e questa è la prima sfida che attende Biden: mentre lui duellava con Trump, la Cina si rafforzava come portatrice di un’alternativa globale e sistemica. Una vasta area del pianeta, con la Cina al suo centro, e nei primi cerchi concentrici l’Estremo Oriente e il Sud-Est asiatico, ha «profittato» della pandemia per una fuga in avanti che distacca l’America.
Per quanto Biden sia un atlantista legato alla vecchia Europa, la logica geostrategica è stringente: si occuperà molto dell’Asia-Pacifico, dove si gioca il futuro e dove l’America rischia di rappresentare il passato. Una parte delle energie del nuovo governo andranno a ridefinire una strategia di contenimento della Cina: senza liquidare frettolosamente l’arsenale trumpiano (dazi, embargo su certe tecnologie, sanzioni), ma cercando di unirvi l’attenzione ai diritti umani. Il rischio è di adagiarsi su una riposta «default», attingendo alla tradizione dell’establishment: con Biden è tornato al potere il vecchio establishment, ma furono le politiche di quella classe dirigente (trattati di libero scambio troppo favorevoli alle multinazionali e alla finanza) ad alimentare il trumpismo.
Il vero test di Biden sarà la sua capacità di far emergere una nuova classe dirigente democratica, anagraficamente e culturalmente giovane. Lo aiuta il fatto che il capitalismo americano conserva risorse formidabili, «spiriti animali» capaci di alimentare la ripresa, se le politiche economiche non si mettono di traverso. L’insidia è che la crisi ha rafforzato in modo esponenziale Big Tech e Wall Street, due potentati economici che hanno avvelenato i valori della nazione e il suo codice etico. La rinascita dell’America sarà il tema dell’anno ma non basterà una rinascita della «vecchia» America, dello status quo ante.
Perché è quello stesso capitalismo americano di cui Biden avrà bisogno per la ripresa, il vero colpevole dietro un allargamento ulteriore delle diseguaglianze, anche durante la pandemia. Tra aprile e settembre del 2020, 45 delle 50 maggiori aziende Usa hanno realizzato profitti. 27 su 50 hanno licenziato, per un totale di centomila posti di lavoro eliminati. Nello stesso periodo, tutte e 50 hanno versato dividendi agli azionisti. E non pochi: 240 miliardi di dollari di dividendi. Gli azionisti si sono arricchiti anche nella pandemia, mentre i lavoratori si sono impoveriti. Il paradosso è che questo establishment capitalistico da anni si sente più rappresentato dal partito di Biden. È una delle contraddizioni che il 46esimo presidente eredita. In questo Inauguration Day, con gli occhi del mondo intero puntati su di lui, sentirà il peso schiacciante delle aspettative.