Il Perù ritrova la calma

L’elezione a presidente ad interim di Francisco Sagasti pone fine alla crisi istituzionale e alle violente proteste degli scorsi giorni a Lima
/ 23.11.2020
di Angela Nocioni

Francisco Sagasti, settantaseienne ex funzionario della Banca mondiale vissuto a lungo all’estero, è il nuovo presidente del Perù. Dovrà traghettare il Paese andino fino alle elezioni dell’11 aprile.

È stato lui la via d’uscita alla terribile crisi istituzionale che ha cambiato tre presidenti in una settimana a Lima e lasciato sul selciato due ventenni uccisi dalla polizia mentre protestavano in piazza: Jack Bryan Pintado Sánchez e Jordan Inti Sotelo Camargo. Oltre a settanta feriti gravi e a centinaia di arresti.

Sagasti è anche il quarto presidente in meno di cinque anni a Lima, città decollata un decennio fa grazie a uno sviluppo economico frizzante che pareva inarrestabile, frenata poi dalla crisi e travolta negli ultimi mesi dall’emergenza da epidemia di Covid-19 che ha messo in ginocchio con una quarantena durata da marzo a giugno una economia sostenuta da un 70% di manodopera in nero. Almeno sette milioni di persone hanno perso il lavoro in quei mesi e non l’hanno recuperato, denuncia l’Istituto nazionale di statistica.

In questo contesto socialmente drammatico agli inizi di novembre è maturata una manovra politico-giudiziaria che ha rapidamente dato scacco matto al presidente in carica, Martín Vizcarra, accusato di aver ricevuto tangenti per 634mila dollari quando ricopriva un incarico locale sei anni fa.

Il principale regista dell’operazione politica che ha portato alla destituzione di Vizcarra per indegnità morale è stato l’allora presidente del parlamento, Manuel Merino, un vecchio latifondista ferocemente razzista con indigeni e afro-indios, noto essenzialmente per aver fatto lavorare nel suo fondo agrario molti minori ridotti in stato di schiavitù. Fatto fuori Vizcarra, da presidente del Parlamento Merino ne ha preso il posto ad interim e quando, a sorpresa perché Vizcarra non era certo un presidente molto amato, migliaia di persone si sono riversate in piazza a Lima denunciando l’operazione interpretata come una manovra della destra estrema per prendere con un colpo di mano il governo, Merino ha evitato ogni mediazione politica ed ha ordinato alla polizia una repressione feroce. Tra i feriti ci sono molti giornalisti.

Lo scandalo che ne è seguito e la mobilitazione di parte della borghesia limeña hanno costretto Merino a mollare e hanno portato alla presidenza della repubblica Francisco Sagasti che si è sempre mostrato un ragionevole moderato di idee liberali e che di recente aveva accettato di presentarsi alle prossime elezioni generali come vice di Julio Guzman, centrista, leader del partito Morado, uno tra i minori dei 24 partiti che siedono nel Congresso nazionale (monocamera con 130 deputati).

Julio Guzman è stato il suo mentore. Si era già opposto all’interdizione del presidente Martin Vizcarra da parte della Camera ritenendola una forzatura giuridica.

Dopo la repressione delle manifestazioni, Guzman ha chiesto le dimissioni di Merino stringendo nel frattempo un accordo con la sinistra parlamentare per sostituire il presidente ad interim con la giornalista Rocio Silva Santesteban. Candidatura caduta sotto il voto contrario di franchi tiratori, molti dei quali centristi come Guzman.

Per uscire dall’angolo Guzman ha brandito la necessità di scongiurare il ritorno dell’uomo forte, ha sventolato il fantasma di Alberto Fujimori raccomandando a centrodestra e centrosinistra di scuotersi per evitare di infilarsi nel solito vicolo cieco della ricerca del caudillo per domare situazioni di emergenza. Il timore ha funzionato, per superare le resistenze dei principali partiti è andata in porto in tempi rapidissimi la manovra concordata per far eleggere Sagasti prima presidente della Camera e immediatamente dopo dello Stato. Sua vice è stata votata Mirtha Vazquez, del socialista Frente Amplio.

La prima mossa del neopresidente, a parte la conferma della convocazione di elezioni ad aprile, è stato l’annunciato pacchetto di misure per «rafforzare l’indipendenza della Procura generale dello Stato e la Sovrintendenza dell’educazione superiore». Quest’ultima è stata al centro della crisi. Perché secondo la vulgata che ha portato alle mobilitazioni di piazza per bloccare la rimozione dell ex presidente Vizcarra c’era il progetto, da parte di un gruppo di partiti di governo, di toglierle alcune centrali funzioni di controllo e indirizzo affinché poi fosse possibile obbligarla a riaprire centri universitari privati, chiusi per non aver rispettato standard minimi di qualità, di cui esponenti di primo piano di partiti di governo sono proprietari (una crisi politica drammatica che celasse un business per gli studi universitari privati è un inedito nella pur travagliata e fantasiosa storia di crisi peruviane).

Fondamentale nello scongiurare il protrarsi del vuoto istituzionale è stato il timore di aprire un varco al colpo di mano di un nuovo Fujimori. Lo spettro evocato da Guzman ha funzionato perché convitato di pietra di ogni discussione politica in Perù è ancora Alberto Fujimori, che ha governato con pugno di ferro tra il 1990 e il 2000. La discussione politica lì è ancora tutta occupata dalla battaglia tra fujimorismo e antifujimorismo, i due grandi campi di appartenenza in cui si divide il paese. Da una parte quelli per cui il nome Fujimori è sinonimo di tirannia. Dall’altra quelli per cui Fujimori era il padrone cattivo ma zelante che si faceva vedere nelle zone più desolate del Perù, raccoglieva meticolosamente richieste e preghiere e poi faceva arrivare qua e là camion di elettrodomestici da distribuire gratuitamente in quartieri in cui un frullatore funzionante era un miraggio.

La promessa del nuovo presidente di rafforzare l’indipendenza della magistratura ha invece destato più preoccupazione che sollievo in patria. In molti temono infatti che più autonomia si traduca semplicemente in più potere, anche politico.

Il Perù è stato recentemente travolto da una grande indagine giudiziaria sulla corruzione di amministratori pubblici da parte delle imprese. La serie di inchieste ha terremotato la politica locale e generato mandati d’arresto per gli ultimi quattro presidenti della repubblica. E ha portato a un suicidio eccellente.

Il mercoledì della Settimana santa dell’anno scorso il popolarissimo ex presidente Alan Garcia – due volte presidente della repubblica (1985-1990, 2006-2011) – aspettava a casa di essere portato in carcere con accuse di corruzione. Era indagato per le concessioni pubbliche relative alla linea 1 della metropolitana di Lima. Secondo le ipotesi degli inquirenti, vari membri del suo secondo governo avrebbero intascato 24 milioni di dollari di cui ci sarebbe traccia in conti segreti ad Andorra e lui stesso avrebbe mantenuto spese superiori al suo patrimonio.

Garcia aveva chiesto invano asilo politico in Uruguay, lamentando una persecuzione giudiziaria nei suoi confronti. Il governo di Montevideo l’aveva rifiutato perché, così recita la motivazione resa pubblica, «in Perù il potere giudiziario è indipendente dal governo e quindi non si può considerare nessuno perseguitato per ragioni politiche».

Pochi secondi prima essere arrestato Alan Garcia ha tirato fuori dalla cassapanca accanto al suo letto una pistola Colt e si è sparato alla tempia destra. In un suo scritto ha spiegato d’aver deciso di suicidarsi «in disprezzo ai nemici». Lì ribadisce la sua innocenza: «Non ci sono conti segreti, né tangenti».

Due giorni dopo il suicidio di Garcia, in uno dei rivoli peruviani della stessa inchiesta centrata sulle mazzette milionarie della Odebrecht – la grande impresa di costruzioni brasiliana che ha distribuito, secondo le ammissioni di alcuni suoi dirigenti, una marea di soldi a vari governi latinoamericani cominciando da quello brasiliano – è stato mandato in cella Pablo Kuczynsky, ex presidente ottantunenne, ricoverato da tempo per problemi di salute.

In questo quadro – in un solo anno sono stati aperti 4225 dossier per reati di corruzione, con 2059 autorità locali come imputati, tra i quali 57 governatori ed ex governatori regionali, 344 sindaci ed ex sindaci e 1658 altri amministratori pubblici – la rimozione di Vizcarra per una accusa di corruzione risalente a un suo vecchio incarico locale, è sembrata a molti una violazione della libertà degli elettori di scegliersi un presidente. Da lì le vaste mobilitazioni delle settimane scorse, che sono il dato politico nuovo e sorprendente della crisi istituzionale aperta e chiusa a Lima in questo mese.