È una casetta di legno sotto una cappa di nubi, immersa in una enorme foresta nei dintorni di Seattle, che sembra volerla tenere al caldo per l’inverno. «Heavensfield» (campo del paradiso) leggiamo sul cartello piantato ai bordi del sentiero d’accesso. Ma sarebbe più appropriato: «Clinica per ciberdrogati».
Attualmente ci vivono cinque giovani adulti in cura per problemi di dipendenza da Internet e videogiochi che seguono reStart, un programma unico negli Stati Uniti di «disintossicazione digitale» non ospedaliera. Le cure si protraggono per diverse settimane o mesi. La prima fase, di 45 giorni, costa 24 mila dollari.
Per ironia della sorte, le sedi sociali di Microsoft e di Nintendo distano solo qualche chilometro da lì. I pazienti, come pure il male che li ha condotti qua, vengono da tutto il mondo. Durante la nostra «full immersion» in questo mondo, un indiano, un britannico e tre americani seguivano un trattamento senza connessione in rete, dove i disturbi del XXI secolo si fondono con le vertigini dell’adolescenza.
Shlok, proveniente da Pune, non lontano da Bombay, era arrivato due settimane prima con il morale a terra. Un fuoco acceso nel caminetto non era di troppo nell’immenso salone desolato, dove condivideva con noi la sua solitudine. Il malessere che il giovane esprimeva era di una violenza inaudita: «Soffro di angoscia sociale. Nella vita reale non riesco a farmi degli amici. È più facile dietro un computer».
Negli ultimi tre anni Shlok non era più andato a scuola. Non faceva altro che surfare e giocare in rete a World of Warcraft, League of Legends, Hearthstones. Tra le 14 e le 18 ore al giorno. La sua sessione più lunga: 26 ore senza dormire «mangiando patatine e bevendo Redbull…».
Racconta i suoi continui scatti d’ira quando perdeva la connessione, roba da spaccare la tastiera. «Si giocava in squadra, fino a venti giocatori sparsi nei quattro angoli della Terra, ma a causa della mia cattiva connessione hanno finito per escludermi. I compagni virtuali di joystick non sono dei veri amici». Di buona famiglia, Shlok ha consultato i migliori psichiatri d’India prima di accettare il biglietto aereo per Seattle che suo padre gli proponeva.
reStart è l’incrocio tra due mondi. La sua fondatrice, la psicologa Hilarie Cash – donna forte, da non etichettare a priori come predicatrice moralista – è una 68enne con alle spalle due anni di dipendenza da marijuana e che verso la metà degli anni Novanta ha incrociato la strada di un paziente che le ha segnato la vita. Si era appena fatto licenziare da Microsoft. E per una giusta causa: non riusciva a staccarsi da un gioco al computer, un «text game» stile «Dungeon and dragons», ovvero la preistoria del videogioco. Internet era agli albori e la psicologa si ricorda di aver dovuto incaricare qualcuno di fare delle ricerche sul web. Era convinta di aver identificato un nuovo malessere. La dipendenza elettronica. Ed aveva iniziato a ricevere nel suo studio qualche giovane paziente.
Nel 2008 il destino di Hilarie si incrocia quello di Cosette Rae, programmatrice informatica pentita, che con un po’ di vergogna le confessava di aver iniziato i suoi bambini ai dispositivi elettronici. Viveva in una bella proprietà nei boschi di Fall City con il marito Gary e otto figli grandicelli. Assieme, le due donne lanciano reStart, un progetto basato su terapie di gruppo con psicologi, attività all’aria aperta, meditazione per la piena consapevolezza mentale (mindfulness), ritorno alle origini.
Le prime due settimane a reStart sono quelle dello svezzamento fisiologico. Nessun accesso al computer ovviamente, e telefonini vietati. Ammessa un’unica telefonata settimanale dalla vecchia cabina situata in soggiorno. Si inizia a riapprendere i fondamentali, come ad esempio i piccoli compiti quotidiani, l’organizzazione del tempo, le pulizie domestiche, lavare i piatti, fare la spesa, il bucato e la doccia. Tutte faccende che si trascurano quando il gioco e il continuo procrastinare si impadroniscono della nostra vita.
Andrew ne sa qualcosa, un bel ragazzo di vent’anni e di tanti talenti. Suona la chitarra, compone pezzi al pianoforte. È di gran lunga quello più a suo agio durante le sedute di ginnastica in garage dove, davanti a un’enorme bandiera americana, i giovani tornano a fare attività fisica dopo anni di ozio. Eppure ha avuto una grave ricaduta. È al suo secondo soggiorno, dopo il tentativo di otto mesi prima.
Tra due colpi di vanga in giardino e un incontro con la terapeuta, racconta com’è stato inghiottito dallo tsunami della dipendenza dopo aver iniziato l’università. È il momento in cui si raggiunge l’autonomia, ma anche quello in cui si può annegare nella solitudine, lontani dai genitori. Era tornato a giocare fino a dodici ore al giorno: «Andavo a letto alle 3 del mattino e mi risvegliavo poco prima di mezzogiorno. Poi decidevo che era troppo tardi per andare ai corsi e troppo tardi anche per mettermi a studiare. Ho iniziato a prendermi un giorno di assenza per malattia. Poi due. Poi tutta la settimana».
Andrew combina la sua dipendenza con un massiccio consumo di DXN (sciroppo per la tosse) e di benadryl in dosi assolutamente nocive, tipo venti volte la dose raccomandata, fino a due bottiglie e mezzo alla settimana. «Avevo un comportamento da drogato», ammette oggi. Il mio ragionamento era: come posso spingermi il più lontano possibile senza uccidermi?». Ben presto mangia solo una volta al giorno, e va gravemente sottopeso. Finiscono per diagnosticargli una depressione. «Hanno deciso di ricoverarmi perché mi ritenevano a rischio di suicidio. Ma non valutavano la mia dipendenza da Internet».
Analizzando le cause di questa discesa agli inferi, racconta se stesso con lucido distacco: «Avevo paura di non essere accettato dagli altri. Sono un super perfezionista, molto critico con me stesso. Detestavo l’idea del fallimento. E non volevo tentare niente di nuovo per paura di fallire, compreso avviare contatti con qualcuno, soprattutto con le ragazze. Come avrei potuto convivere con me stesso in caso di fallimento?».
«Sembravo ancora più giovane della mia età. Ero oggetto di scherno. Questo mi ha tolto fiducia in me stesso. Tutti questi problemi erano legati all’interazione sociale. Per evitarli, bastava evitare l’interazione sociale scappando su Internet. Quando non avevo il computer fra le mani avevo l’impressione di morire. E quando ero al computer, mi sentivo vivo. Il computer è diventato la mia vita. È una dipendenza orribile».
Gli psicologi constatano che la dipendenza dai videogiochi va spesso di pari passo con una dipendenza globale da Internet, a volte dalla pornografia, magari tra una sessione e l’altra di World of Warcraft. Michael, che è in «fase due» di reStart (abita da solo in città, in un appartamento con più autonomia, ma comunque sotto la supervisione dei terapisti), si considera un «newsjunkie» (drogato di siti di notizie).
È cresciuto circondato da computer. I suoi genitori lavoravano per Microsoft ed anche loro giocavano ai videogiochi. «Il computer è sempre stato molto presente nella mia vita. Nella mia famiglia ci sono personalità soggette alla dipendenza. Io sono molto ansioso. Navigare e giocare ai videogiochi mi permette di sprofondare in un altro mondo dove sono qualcuno di completamente diverso. Quando non posso andarci, mi sento… prigioniero. La verità è che questo mi ha fatto accumulare ritardi nella vita. Ho 26 anni e non ho ancora un diploma».
L’anno scorso, l’American Psychiatric Association ha menzionato per la prima volta il «Gaming Disorder» (disturbo da gioco) nel suo Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. Tuttavia, questa «bibbia dei disturbi mentali» non riconosce ancora la dipendenza dalle reti sociali, dalle e-mail o da Internet.
Hilarie Cash non ha dubbi a proposito: «È scioccante constatare che i terapisti che hanno capito questi comportamenti dipendenti siano così pochi. Coloro che non li riconoscono sono ignoranti o non hanno letto i libri giusti». La psicologa americana elogia il modello della Corea del Sud, la società «più connessa in rete del mondo» in percentuale di abitanti, che ha fatto della «dipendenza da Internet» una questione di salute pubblica. Il governo ha aperto centri specialistici un po’ dappertutto.
Negli Stati Uniti, specialmente nelle Redwoods californiane, sono nati dei programmi per staccare la spina da Internet durante il fine settimana, i cosiddetti «Camp grounded» per la disintossicazione digitale. Una parentesi tra la natura per i patiti dell’iPhone o del Blackberry. Qui a Seattle si percepisce bene che il malessere va aldilà della compulsione per Facebook o Twitter, come sintetizza Shlok: «Non posso diventare dipendente dai social. Non li utilizzo più semplicemente perché non ho una rete sociale».
In una piccola dépendance discosta dalla casa, immersa nella foresta, il gruppo si riunisce con un terapista. Il tema è «l’Impact letter», la lettera che ogni residente deve scrivere per identificare il male causato alla sua famiglia dalla propria dipendenza. C’è emozione. Tempi morti. Molta solidarietà fra i giovani. E una maturità nei buoni propositi che contrasta con l’ambiente a volte infantile del programma. A reStart ogni giornata inizia, ad esempio, con una seduta collettiva del bilancio e della pianificazione nel corso della quale si esprime la propria gratitudine per avere avuto «delle uova a colazione», aver fatto progressi nel proprio diario intimo o terminato il proprio compito di lettura. Nella biblioteca si trova qualche opera sui malesseri contemporanei: «iDisorder», «Cyberjunkies», «Hooked on Games».
«Quel che è difficile con Internet, rispetto alle dipendenze dall’alcool o dalla droga, è che non te ne puoi disfare completamente se non vuoi restare sconnesso dal resto del mondo», analizza Michael. Qui i ciberdrogati, alla stregua dei 200 pazienti che li hanno preceduti, dovranno imparare lentamente non la privazione ma l’uso moderato delle nuove tecnologie. «Come è possibile mangiare sano, altrettanto è possibile utilizzare un computer in modo sano», afferma convinta Hilarie Cash.