Lo chiamano MbS, tanto per abbreviarne il nome in stile giovanil-confidenziale, ma sottovoce, per l’élite saudita, è il «principe Caos». Lui, Mohammed bin Salman, anni 32, figlio del re, erede al trono, ministro della Difesa e dell’Interno, è invece convinto di essere un rivoluzionario a tutto tondo, deciso a traghettare quella mummia anacronistica dell’Arabia Saudita ad una modernità più consona ai tempi che corrono e al ruolo geostrategico che le compete in Medio Oriente e sulla scena internazionale. Nel frattempo ha cominciato letteralmente a picconare i nemici interni ed esterni che potrebbero intralciare i suoi disegni, col pieno favore del padre che fa di tutto per spianargli la strada, forse nella prospettiva di abdicare, viste le sue precarie condizioni di salute. A livello interno intanto MbS ha preso di mira i tre centri di potere che hanno retto fino ad oggi tutta l’architettura del regno: il mondo degli affari, l’establishment religioso e le forze di sicurezza. In sostanza ha decapitato la classe dirigente del Paese a tutti i livelli, rimanendo praticamente solo al comando.
La cerchia affaristica che monopolizza le ricchezze nazionali era ed è ancora composta in gran parte di principi del sangue. Ebbene, nel giro di un week end di fuoco (tra sabato 4 novembre e lunedì 6) Mohammed bin Salman ha fatto imprigionare undici principi-tycoon, 4 ministri in carica e una quarantina tra ex ministri e uomini d’affari tutti colpevoli di «corruzione». L’accusa peraltro è arrivata da un’apposita Commissione, presieduta dal medesimo MbS, che il re aveva creato poche ore prima che scattassero le manette. Manette, poi, si fa per dire perché la prigione in cui gli indiziati sono stati rinchiusi altro non è che il pluristellato Ritz Carlton Hotel di Riad oggi presidiato all’esterno dalle forze di sicurezza.
In tale splendida cornice, tra gli altri, sono così finiti agli arresti alberghieri il principe arabo più ricco del mondo, Al-Waleed bin Talal, nipote del fondatore del regno Abdel Aziz ibn Saud, che attraverso la sua Kingdom Holding Corporation è azionista di giganti come Twitter, Citigroup, Newscorp, 21st Century Fox, un uomo da 16,8 miliardi di dollari, ben conosciuto in tutto il mondo soprattutto dopo che, durante l’ultima campagna elettorale americana, definì Donald Trump una «disgrazia» per gli Stati Uniti; Saleh Kamel, fondatore e presidente del gruppo finanziario Dallah al-Barakah ma soprattutto «padre» della finanza islamica che ha rilanciato in tutto il Medio Oriente e in Asia; Al-Waleed al-Ibrahim, amministratore delegato della Middle East Broadcasting Corporation che nel 2003 creò l’emittente Al-Arabiya per far concorrenza alla qatarina Al-Jazeera. E ancora un uomo dal cognome imbarazzante: Bakr bin Laden, presidente del colosso delle costruzioni Saudi Bin Laden Group, il più grande di tutta l’Arabia Saudita. Soprannominato «il Sultano di Gedda», dove faceva il bello e il cattivo tempo, per quel che riguarda gli italiani è l’azionista al 50% della Marmi Carrara, per quel che concerne invece la memoria del mondo intero è fratellastro del defunto Osama bin Laden.
L’elenco degli arrestati è lungo, ma è difficile spiegare cosa si intenda in Arabia Saudita per corruzione. Nell’ordine di carcerazione l’accusa era di aver anteposto l’interesse personale a quello del regno. Ma, nel regno, non esiste una distinzione chiara e istituzionalizzata tra la gestione delle ricchezze statali e quelle della famiglia Saud e dei loro clientes. Lo Stato sono gli al-Saud medesimi (qualcosa come 10’000 parenti in vario grado) che monopolizzano la sfera politica ed economica del Paese senza alcun sistema di check and balance.
L’establishment religioso, e in particolare gli ulama discendenti di Mohammed ibn Abd al-Wahhab, sono i «chierici» che vegliano tutt’oggi sulla legittimità degli al-Saud a governare nella misura in cui rispettano, diffondono e difendono il puritanesimo religioso wahhabita. Detto in altre parole controllano l’operato del re, il quale re in teoria non potrebbe emanare leggi senza il loro consenso. Ricordiamo che in Arabia Saudita non esiste un parlamento, ma solo un Consiglio consultivo del sovrano in cui siedono i discendenti inturbantati di al-Wahhab, i ministri e i capi-tribù. Inutile dire che il re e gli ulama entrano spesso in rotta di collisione.
In settembre invece sono finiti in carcere diversi ulama dissidenti (i più noti sono Salman al-Awdah e Awad al-Qarni ancora dietro le sbarre) in un’ondata di arresti che ha colpito gli oppositori della linea politica dell’erede al trono. Altre dozzine di religiosi sono stati arrestati alla vigilia del week end di fuoco e ad altri ancora è stato impedito di tenere omelie in pubblico. In tutti i casi, in attesa di ulteriori sviluppi, la massima istanza religiosa del regno, il Council of Senior Scholars, ha dato la sua benedizione alle carcerazioni. E sempre per ora, si è allineato anche Mohammed Al-Eissa, l’ulama che guida la Muslim World League, ma è innegabile che nell’establishment religioso dilaghino scontento e sospetto.
Come ministro della Difesa e degli Interni Mohammed bin Salman ha già il controllo delle forze armate e della polizia, ma il 4 novembre scorso si è assicurato anche quello delle forze di sicurezza alias della Guardia Nazionale facendo arrestare il principe Mitaeb bin Abdullah, figlio del penultimo re, comandante della Guardia Nazionale fino al 2013, passato poi a dirigere il ministero della Guardia Nazionale stessa.
La «colpa» del principe Mitaeb è di essersi opposto alla guerra in Yemen fin da quando è iniziata nel 2015. Alla testa del corpo d’élite incaricato di vegliare sulla sicurezza interna del regno lo ha sostituito il principe Khaled bin Ayyaf. La guerra in Yemen investe direttamente una delle linee guida più importanti della politica estera saudita MbS style, talmente importante da non sopportare alcuna dissidenza interna: il braccio di ferro con l’Iran per l’egemonia sul Golfo Persico e sull’intero Medio Oriente. In questa prospettiva rientrano anche le dimissioni del primo ministro libanese Saad Hariri, sunnita, a capo di un esecutivo di unione nazionale, da sempre filo-saudita e in affari con molti dei principi arrestati.
Ma soprattutto ha puntato il dito contro gli Hezbollah – membri del suo stesso governo – e l’Iran che li ha sempre armati e sostenuti. Iran che peraltro arma e sostiene anche i ribelli Houthi dello Yemen che non più tardi dell’ormai storico 4 novembre hanno sparato un missile contro l’aeroporto della capitale saudita, intercettato però prima che colpisse il bersaglio. Riad ha immediatamente accusato Teheran di quello che ha definito un vero e proprio «atto di guerra», e ha chiuso tutte le frontiere con lo Yemen, strangolando così un Paese già allo stremo. Se a questo aggiungiamo che il 5 novembre sempre sul confine yemenita è morto in un «incidente» al suo elicottero il principe Mansour bin Muqrin, figlio dell’ex erede al trono Muqrin bin Abdel Aziz ibn Saud, spodestato nella sua carica di delfino proprio da Mohammed bin Salman, il cerchio si chiude.
In un quadro come questo, Trump si è affrettato a congratularsi con MbS per la sua operazione repulisti senza riflettere a quale instabilità può portare in Arabia Saudita e nell’area. Di certo il programma di modernizzazione e riforme avviato con le buone e con le cattive dall’erede al trono richiederà uno sforzo immenso su troppi fronti per esser ben gestito: a livello economico il progetto Vision 2030 che dovrebbe sganciare l’Arabia Saudita dai proventi petroliferi langue, visto il basso costo del barile; il blocco del Qatar, colpevole per Riad di finanziare il terrorismo e farsela con l’Iran, è praticamente fallito; la guerra in Yemen si è trasformata in un mezzo Vietnam; le opposizioni al regime di Bashar al-Assad che Mbs aveva finanziato per arginare l’influenza dell’Iran e degli Hezbollah libanesi in Siria sono diventate ininfluenti e sul terreno sono state bruciate dall’Isis e dall’erede di al-Qaeda, Hay’et Tahrir al-Sham; l’Iran, soprattutto, ormai è diventato un deus ex machina tanto in Siria quanto in Iraq e – dopo le dimissioni di Hariri – avrà voce in capitolo anche nel periclitante Libano, dove il presidente Aoun, cristiano maronita, non nasconde le sue simpatie per gli Hezbollah. Delle tanto conclamate riforme di MbS, insomma, per ora si vedono solo le macerie che stanno lasciando sul terreno.