Nelle scorse puntate (vedi «Azione» del 13 febbraio, 27 febbraio e 20 marzo) abbiamo parlato delle comunità ebraiche ultraortodosse, tuttavia vi è un altro grande gruppo di ebrei osservanti che è costituito dai cosiddetti nazionalisti religiosi. Pur conducendo una vita rispettosa dell’osservanza, questi ultimi si distinguono per la kippà a uncinetto (a differenza di quelle nere dei charedìm) e per l’inserimento attivo nella società allargata. Questo settore, che costituisce circa il 10% della popolazione ebraica israeliana, è sostanzialmente diviso in due gruppi: uno più integralista sia dal punto di vista dell’osservanza che da quello politico, e un altro liberale, più moderno e moderato, e maggiormente integrato nella società laica.
Le radici della corrente risalgono al 1800 e il leader spirituale il cui pensiero ne ha influenzato e forgiato l’identità è stato il rabbino Abraham Isaac Kook (1865-1935), primo rabbino capo ashkenazita sotto il Mandato. Già prima della fondazione dello Stato, il movimento ha contribuito al sionismo di Hertzel e all’emigrazione in Palestina che esso vede come parte del disegno religioso. Si associano a loro tra gli altri il movimento giovanile Bne’ Akiva e il partito Mafdal, così come una fitta rete di istituzioni scolastiche di ogni grado e scuole rabbiniche, tra cui le famose yeshivòt Merkaz Harav e Hakotel.
Con il passare degli anni i nazionalisti religiosi si sono allineati politicamente sempre più a destra, facendosi portatori dell’ideologia della «Terra d’Israele intera». Per tale motivo, a partire dagli anni ’70 in poi, molti si sono trasferiti nei territori creando colonie sul Golan, in Giudea, Samaria e nella Striscia di Gaza. Il ritiro da quest’ultima, imposto loro con la forza da Ariel Sharon nel 2005, è stato uno degli eventi più drammatici che li ha visti come protagonisti e il processo di riabilitazione degli sfollati è ancora in corso. Mentre le donne propendono per il servizio civile, gli uomini svolgono quello militare eventualmente integrandolo con studi talmudici. Tuttavia la presenza crescente dei nazionalisti religiosi nelle unità da combattimento continua a suscitare dubbi e timori nella società laica, per la preoccupazione che ciò possa compromettere determinate operazioni come appunto quelle nelle colonie.
Tra i temi più dibattuti all’interno del settore tra posizioni conservatrici e liberali troviamo questioni etiche, politiche, sociali e di diritto ebraico. In discussione sono la sovranità sul territorio, la conservazione dell’identità ebraica, lo status delle donne, il rapporto con il mondo accademico e con la società laica. Negli ultimi decenni dalle loro schiere sono uscite interessanti personalità dall’indubbio spessore intellettuale e creativo. Uno di questi è il rabbino Shimon Gershon Rosenberg, meglio conosciuto come Shagar (1949-2007), il quale, pur partendo da una rigida osservanza dei precetti, ha instaurato un prolifico dialogo con il pensiero postmoderno di matrice europea, proponendo un approccio innovativo alla fede basato sulla scelta del singolo di fronte alle tante alternative possibili offertegli dal mondo contemporaneo. Un’altra figura interessante è quella del rabbino Menachem Fruman (1945-2013) promotore di un dialogo interconfessionale tra ebrei e musulmani che fa leva sulla religione come strumento e fonte di riconoscimento di umanità e pari dignità per tutti i popoli. I ministri Smotrich e Ben-Gvir fanno entrambi parte delle correnti più estreme del nazionalismo religioso.
Uno stop provvisorio e carico di tensione
Lo scorso lunedì sera, al termine di una lunga giornata di sciopero generale che ha paralizzato persino l’aereoporto, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha finalmente congelato l’approvazione della riforma della giustizia. Il culmine delle proteste era stato infatti raggiunto domenica sera, quando migliaia di manifestanti si erano riversati nelle strade infuriati a causa del licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant, provocando tensioni e scontri violenti con la polizia, senza precedenti nella storia del Paese. Messo con le spalle al muro dalla pressione dell’opposizione, nonché dal dissenso emerso nel suo stesso partito, il primo ministro ha fatto un passo indietro motivato dal timore dell’insorgere di una guerra civile.
Benché molti abbiano tirato un sospiro di sollievo all’apertura di un dialogo di compromesso, la realtà israeliana si riconferma nella sua problematicità. Innanzitutto si tratta solo di una sospensione. Inoltre, per tenersi buona l’ala di estrema destra ed evitare la caduta del Governo, Netanyahu ha immediatamente ceduto alla richiesta del ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir che gli ha strappato la promessa di creare un corpo di guardia nazionale, una vera milizia privata che rieccheggia inequivocabilmente le dittature del passato.
Infine, il ruolo chiave della disobbedienza dei militari nella pressione esercitata su Netanyahu non fa che dimostrare ancora una volta la centralità dell’esercito nella società israeliana militarizzata la quale, anche nelle componenti cosiddette liberali, persiste nel voler mantenere uno status quo che istituzionalizza la colonizzazione dei territori e legalizza la discriminazione dei palestinesi, complice la magistratura. Insomma, anche l’elite che ha guidato le proteste è interessata a mantenere i privilegi dell’etnocrazia, mentre l’Europa a sua volta finanzia l’occupazione e i primi a fare le spese della nuova milizia saranno naturalmente i palestinesi.
La tomba del rabbino Abraham Kook a Gerusalemme. (Keystone)
Il nazionalismo religioso delle kippà a uncinetto
Israele/quarta puntata, dopo aver conosciuto le comunità ultraortodosse, ecco un altro grande gruppo di ebrei osservanti
di Sarah Parenzo