C’è la recessione tedesca e c’è la recessione degli altri. La prima è quasi una certezza, con conseguenze mondiali e soprattutto sull’Eurozona: di buono, c’è il possibile allentamento delle rigidità di bilancio ad opera di Ursula von der Leyen. La recessione degli altri è per ora solo un pericolo. Occupa un’attenzione notevole in America anche per i riflessi sulla campagna elettorale. Primeggia tra le preoccupazioni di Xi Jinping, perché non sappiamo se il regime cinese sarebbe in grado di reggere ad una vera crisi economica: non ne ha dovuto gestire neanche una, dopo Piazza Tienanmen (1989). E poi ci sono tutti gli altri: dall’Italia ai Bric. Procediamo per ordine.
Il G7 è stato l’occasione per l’ennesima giravolta di Donald Trump nella guerra commerciale con la Cina. Partendo da Washington alla volta della costa atlantica basco-francese aveva annunciato nuovi rialzi nei dazi americani, fino a colpire la totalità delle importazioni cinesi (500 miliardi di dollari): era stata la sua vigorosa reazione ai dazi cinesi su 75 miliardi di prodotti made in Usa. Inoltre Trump alla vigilia del G7 aveva lanciato un invito-esortazione alle imprese americane perché smobilitino dalla Cina. Aveva perfino evocato una legge del 1977 che consentirebbe al presidente degli Stati Uniti – previa dichiarazione di uno stato di emergenza – di bloccare le future transazioni in valuta delle aziende con la Cina. Al termine del summit di Biarritz, Trump ha cambiato tono e rassenerato l’atmosfera.
Nella conferenza stampa finale del G7 il presidente americano ha evocato a più riprese dei segnali accomodanti ricevuti da Pechino. Ha detto che c’erano state telefonate tra i due governi, confermando la chiara volontà cinese di riprendere le trattative. Si è detto a sua volta felice che le cose possano aggiustarsi. Ha definito Xi Jinping «un grande leader» mentre pochi giorni prima lo aveva bollato come «un nemico». Per la verità da Pechino non sono giunte conferme. Variazioni umorali e d’atmosfera del presidente americano? Gesti rassicuranti verso quegli alleati europei – Boris Johnson incluso – che avevano caldeggiato con lui una «pace commerciale» per salvare la crescita mondiale? O forse davvero qualcosa si sta muovendo e i cinesi hanno rimesso sul tavolo qualche concessione che sblocca il negoziato?
Di sicuro c’è una dichiarazione ufficiale del vicepremier Liu He, che ha la regìa dei negoziati per la parte cinese, il quale ha auspicato che le trattative tra le due parti «riprendano nella calma». «Ha ragione – ha scherzato Trump – calma, calma, è una bella parola, che io non uso spesso». La velocità con cui cambiano i messaggi dalla Casa Bianca, costringe a usare cautela. A chi gli rinfacciava le continue docce scozzesi, gli annunci contraddittori, i capovolgimenti da un giorno all’altro, Trump ha risposto: «È così che si negozia, è così che io ho avuto successo negli affari». Il mondo delle grandi imprese ormai deve incorporare una dose d’incertezza elevatissima, nel valutare gli scenari a breve-medio termine. La sensazione è che comunque qualcosa si sia guastato in modo quasi irrimediabile, e nel lungo termine chi può farlo sta già predisponendosi ad una «guerra fredda» che costringe a smembrare catene logistico-produttive articolate per trent’anni anni sulle due sponde del Pacifico. Intanto gli effetti degli annunci passati, e dei dazi già entrati in vigore, sono ben visibili nelle economie più dipendenti dai mercati esteri.
Bric, fu una sigla a lungo sinonimo di boom dei paesi emergenti. Coniata da un economista di Goldman Sachs (Jim O’Neill) nel 2001, ebbe successo nelle analisi geopolitiche e nei portafogli degli investitori. Bric è l’acronimo che sta per Brasile Russia India Cina, l’ordine è scelto solo per la sua musicalità (suona come la parola inglese «brick», mattone), ma è l’ultima lettera quella che rappresenta in realtà la prima economia mondiale. Oggi i paesi Bric hanno due cose in comune. Restano esclusi dal G7, come tale sempre meno rappresentativo dei nuovi equilibri mondiali. Ma soprattutto, i Bric stanno rallentando in simultanea, all’unisono. È «la recessione degli altri», appunto, non ancora una realtà. Tutti senza eccezione però soffrono quantomeno per una frenata nella crescita che può preludere al peggio; e viste le loro dimensioni ha un impatto certamente non inferiore alla frenata dell’Eurozona.
La Cina ha visto la sua produzione industriale crescere solo del 4,8% a luglio rispetto allo stesso mese nel 2018. È la crescita industriale più debole dal 2002, ed è la conferma più tangibile che la guerra dei dazi non è indolore per la «fabbrica del pianeta». Una concausa va ricercata nel tentativo del governo cinese di riportare sotto controllo l’eccessivo indebitamento. Su questo secondo fronte è possibile che Xi Jinping debba ricredersi. Se la frenata dell’economia dovesse prolungarsi e diventare ancora più dolorosa, l’imperativo del consenso sociale forse farà tornare all’ordine del giorno le manovre di dirigismo pubblico (investimenti in grandi opere, infrastrutture, edilizia), oltre che la svalutazione del renminbi.
Subito dopo la Cina, in ordine di grandezza economica tra i Bric viene l’India, ormai vicina ad eguagliare la dimensione del Pil della Germania. Anche la crescita indiana rallenta: di recente ha effettuato un sorpasso all’indietro sulla Cina, tornando in seconda posizione in quanto a velocità. L’ultima novità da New Delhi è il «regalo» assai controverso della banca centrale al governo di Marendra Modi. La Reserve Bank of India stacca un assegno da 25 miliardi di dollari a favore del suo azionista, sotto la voce «dividendi e capital gain». Per molti osservatori è un segnale inquietante di perdita di autonomia della banca centrale. Per il governo Modi è una boccata di ossigeno, ne avrà bisogno per quella manovra di rilancio della crescita invocata da più parti. L’economia indiana ha alle sue spalle quattro trimestri consecutivi di rallentamento.
Il Brasile, la maggiore economia dell’America Latina, adesso teme di finire in recessione tecnica. L’economia rallenta, la crescita resta incollata allo 0,5 per cento, la stima nel secondo semestre è dello 0,8. Il timore di una recessione tecnica ha spinto ad una fuga dei capitali stranieri: dal 15 agosto 460 milioni di dollari sono usciti dal Paese. Non accadeva dal 1996. Se sui media internazionali il Brasile fa notizia per gli incendi in Amazzonia, il suo problema numero uno è la Cina. Negli anni d’oro dell’ultimo boom brasiliano, a cavallo tra le presidenze di Lula e l’inizio della presidenza di Dilma Roussef, l’economia era stata trainata dal «ciclo cinese». In particolare gli acquisti massicci di derrate agroalimentari. Si era creato un circolo virtuoso: 1,4 miliardi di cinesi raggiungevano livelli di benessere più elevati, di conseguenza la loro dieta si arricchiva e si occidentalizzava, diventavano consumatori sempre più voraci di carni, zucchero, caffè.
Le materie prime brasiliane, succhiate dalla domanda del mercato cinese, avevano avuto una lunga stagione di prosperità. Ora siamo nella fase opposta del ciclo.
Dulcis in fundo, anche la Russia è costretta a rivedere al ribasso le sue stime di crescita, peraltro già poco brillanti. Dei Bric la Russia è l’economia più piccola, curioso paradosso che dura dall’epoca degli Zar e poi dell’Urss: Mosca ha sempre governato un gigante geostrategico e un nano economico, incapace di modernizzarsi. Neppure i tentativi di pilotare con l’Arabia saudita i tagli Opec e di imporre un rialzo dei prezzi del greggio, stanno salvando la Russia dai venti avversi della congiuntura mondiale.
In quest’epoca in cui i destini del mondo sono appesi al rapporto tra America e Cina, è singolare che a Biarritz si sia discusso tanto di Vladimir Putin (verrà o non verrà reintegrato al prossimo summit?), dando per scontato invece che la Cina non sia nel G7. Un formato di vertice nato a Rambouillet nel 1975 (quando era ancora vivo Mao Zedong) è drammaticamente inadeguato a governare le sfide di oggi, dall’economia all’ambiente. Sovra-rappresentazione dell’Europa e assenza delle potenze emergenti hanno dato al summit di Biarritz il sapore di uno sfoggio di nostalgia. Sconcertante in particolare l’assenza di Xi Jinping dal dibattito sull’Amazzonia visto che buona parte del legname lo importano proprio i cinesi.
Le «recessioni degli altri» sono in grado di accelerare i tempi della crisi europea? Di sicuro è nei guai la Germania. Ha già un trimestre di crescita negativa (meno 0,1% da inizio aprile a fine giugno). Visti i pessimi dati dell’Ifo sulla fiducia delle imprese tedesche, ai minimi da 7 anni, è probabile che anche il terzo trimestre sia in rosso e questo farebbe scattare la definizione tecnica di una recessione. L’unico riflesso positivo è che da Berlino a Bruxelles si moltiplicano i segnali di un’interpretazione più flessibile del Patto di Stabilità.
Di fronte a questo peggioramento della congiuntura, gli strumenti a disposizione della politica economica sono due: quello monetario e quello di bilancio. L’arsenale delle banche centrali è ai minimi termini come dimostrano i tassi negativi sui bond tedeschi: quanto più giù si può scendere. Le politiche di bilancio sono state condizionate dai parametri di Maastricht e poi dal Patto di stabilità a tal punto da renderle «pro-cicliche», il che in economia equivale a una brutta parola. Significa infatti che quando un paese s’impoverisce le regole dell’Eurozona lo costringono a stringere la cinghia e quindi frenano ulteriormente l’economia.
Qualche segnale di ravvedimento comincia ad esserci proprio in queste settimane. Non sfugge agli italiani questa ironia della sorte: proprio quando Matteo Salvini ha fatto cadere il primo governo Conte e se n’è andato all’opposizione, Bruxelles forse diventa più accomodante verso quelle richieste di flessibilità che erano state avanzate dalla Lega.