«In Vietnam non va mai bene niente agli americani», dice qualche cinico nella sala stampa di Hanoi dove migliaia di giornalisti sono rimasti senza parole, quando gli è stato comunicato che il summit si era concluso anzitempo. Anche il luogo è evocativo: il Sofitel Legend Metropole Hanoi, che sorge nella parte più antica della capitale vietnamita, non è soltanto uno degli hotel più lussuosi del mondo, ma un pezzo di storia del Vietnam. La sua facciata bianca, in stile coloniale francese, è ormai conosciuta anche da chi ad Hanoi non ha messo mai piede, grazie alle fotografie dei migliaia di giornalisti che hanno seguito mercoledì e giovedì scorso il secondo summit tra il presidente americano Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un.
È qui che i due leader si sono stretti la mano per la seconda volta, in favore di telecamere, aprendo quello che sarebbe dovuto essere il grande incontro per dare il via effettivo al processo di denuclearizzazione e di apertura al mondo della Corea del nord. Ed è qui che hanno lasciato tutti di sasso, quando ore prima della firma di un accordo –una firma che tutti si aspettavano, e che tutti avevano annunciato – hanno deciso di abbandonare i colloqui, almeno per il momento.
Trump ha lasciato il Vietnam due ore prima dell’orario previsto, contravvenendo a molte regole diplomatiche asiatiche. Qui, infatti, il cerimoniale è considerato quasi più importante delle strette di mano. Del resto, come è accaduto per Singapore nel giugno del 2018, anche il Vietnam aveva capito che avrebbe potuto trarre vantaggio, in termini di attenzione mediatica e soft power, dall’interesse globale per lo storico summit. Nonostante il fallimento dei negoziati, per due giorni la capitale del piccolo Stato del sud-est asiatico, dove tutto ancora parla di una guerra dolorosa che sembra essere una ferita mai rimarginata, si è trasformata in un tappeto di bandiere americane, nordcoreane, sudcoreane e soprattutto vietnamite. E un’altra immagine di questo summit che difficilmente potrà essere esclusa dai libri di storia, infatti, è quella del presidente Donald Trump che tiene in mano le due bandiere, quella a stelle e strisce e quella rossa con la stella gialla a cinque punte del Partito comunista del Vietnam, dopo aver avuto un colloquio con il presidente Nguyen Phu Trong.
Costruito nel 1901, l’hotel Legend Metropole di Hanoi è una leggenda perché negli anni è stato il quartier generale di dignitari stranieri, ambasciatori e personalità mediatiche. Nel 1972 l’attrice americana Jane Fonda si stabilì qui, durante il suo periodo di militanza contro la guerra. Così fece la cantante folk Joan Baez, che sotto le bombe americane registrò parte del suo disco «Where Are You Now, My Son?». Trascorse dodici giorni sotto le bombe dell’operazione per distruggere Hanoi autorizzata dal presidente Nixon durante gli ultimi mesi della guerra del Vietnam, quasi sempre chiusa nei bunker antibomba costruiti sotto al Legend Metropole. I rifugi furono sigillati dopo la guerra e riaperti soltanto nel 2011, quando l’hotel stava ristrutturando il Bamboo Bar, oggi uno dei bar più famosi del mondo, e decisero di aprire i bunker per farne un’attrazione turistica.
La guerra e il turismo, e le ferite che non si rimarginano. Anche la penisola coreana è piena di luoghi di questo tipo: basti pensare alla Zona demilitarizzata, lungo il 38° parallelo. Sin dal 1953, dopo la firma dell’armistizio e la fine delle ostilità, l’area più militarizzata del mondo è stata periodicamente un luogo di morte e di aggressioni, e allo stesso tempo anche un luogo turistico, dove alle persone viene promessa una vera esperienza dalla Guerra di Corea, l’immagine di un paese diviso, e tecnicamente ancora in guerra, con tutti i gadget patriottici da acquistare nel negozio dietro l’angolo.
Subito prima di stringere la mano a Kim Jong-un, parlando con il presidente vietnamita, Trump aveva detto che sia Washington sia Pyongyang erano felici all’idea di svolgere il summit in Vietnam perché «questo è un posto che davvero può essere un esempio per capire cosa può succedere se si ha il giusto atteggiamento»: un paese ferito da una guerra, ubriaco d’ideologia comunista, che oggi è tra le migliori economie del sud-est asiatico. Ma vari analisti hanno più volte criticato l’esempio di Trump, perché il cosiddetto «regno eremita» di Kim si sente tutt’altro che un piccolo Paese del sud-est asiatico: dal suo punto di vista, dopo anni di deterrenza e isolamento strategico, la Corea del nord è una potenza nucleare che può permettersi di dialogare direttamente con i grandi della terra.
«Penso che il tuo Paese abbia un enorme potenziale economico. Incredibile. Illimitato», ha detto Trump a Kim prima che i due lasciassero l’hotel dei negoziati. «E penso che avrai un futuro grandioso con il tuo Paese, sei un grande leader. Non vedo l’ora che accada e sono pronto ad aiutarti». Ma ora che i colloqui di Hanoi sono falliti, bisognerà ricominciare da capo: Trump ha detto di aver lasciato il tavolo per via delle richieste della parte nordcoreana, che voleva la cancellazione immediata delle sanzioni economiche senza però dare niente in cambio sulla verificabilità dello smantellamento delle testate atomiche. Quel che è certo è che la strategia dell’Amministrazione Trump continuerà essere quella di offrire a Kim Jong-un la possibilità di far ricco il suo Paese, pur restando saldamente alla testa del regime, in cambio di una denuclearizzazione graduale. In parte, l’esempio usato da Trump è convincente: l’economia del Vietnam negli ultimi anni è in grande crescita, il Pil aumenta a ritmi del 6,8 per cento l’anno. Tutto grazie a una strategia economica iniziata negli anni Ottanta con il «doi moi», il rinnovamento, l’apertura a un’economia di mercato «con caratteristiche vietnamite».
Non è un caso se negli ultimi giorni parte della delegazione nordcoreana abbia studiato, fuori dal circo mediatico di Hanoi, alcune aree strategiche del Paese come la città portuale di Hai Phong, dove ha sede VinFast, azienda del settore automotive che fa parte del conglomerato vietnamita Vingroup. Ma se il «doi moi» possa essere applicabile a una realtà come quella nordcoreana è ancora molto difficile a dirsi. Il socialismo vietnamita è completamente diverso dalla strada percorsa da Pyongyang, dove Kim Il-sung, nonno dell’attuale leader, negli anni Cinquanta istituì un socialismo ereditario di stampo quasi religioso.
A oggi la famiglia Kim è la forza stabilizzatrice, il collante di 25 milioni di nordcoreani che, secondo vari report delle organizzazioni internazionali, hanno bisogno di un piano di sviluppo vero, che guardi al futuro, e non di investimenti sul breve periodo. Su un punto almeno il Vietnam può essere considerato un simbolo, piuttosto che un esempio: un paese che è stato diviso dalla guerra che tra gli anni Sessanta e Settanta è costata la vita ad almeno tre milioni di vietnamiti e 58 mila soldati americani, che subì l’isolamento economico e diplomatico dopo l’occupazione della Cambogia del 1978, è riuscito a superare il passato, senza dimenticarlo. Ma ancora oggi si trova diviso tra l’influenza cinese e quella americana, senza trovare una vera identità, se non nel suo passato.