Il mito del Piano Marshall

Storie di rinascita – 4. parte Nel secondo dopoguerra l’America decise di varare l’European Recovery Program, segnando la storia del Vecchio continente con un’iniziativa d’aiuto alla ricostruzione
/ 28.09.2020
di Federico Rampini

Roma città aperta, Sciuscià, Ladri di biciclette: bisogna rivedere i grandi film del nostro neorealismo, per avere un’idea della povertà nel dopoguerra. Alla fine del conflitto il tenore di vita degli italiani precipita al livello più basso dal 1870. La dieta alimentare che fino al 1939 era stata in media di 2.500 calorie al giorno, cade a 1.800 calorie. Un maestro di scuola così «fortunato» da poter cumulare il suo stipendio e una pensione da invalido di guerra, arriva a guadagnare 350 lire al giorno: ma dodici uova costano 216 lire e si portano via i due terzi del suo reddito. L’indice dei prezzi al consumo si è moltiplicato cinquanta volte.

E la condizione italiana non è anomala. In Baviera i treni che trasportano carbone arrivano a destinazione semi-vuoti: lungo il percorso vengono assaltati e saccheggiati da bande di disperati, per rubare di che riscaldarsi a casa. Delle squadre di medici americani fermano i cittadini tedeschi per strada per pesarli, talmente li vedono denutriti. A Berlino i medici chiedono alle autorità di occupazione di autorizzare gli aborti: le donne non sono in grado di portare a termine le gravidanze, tantomeno di allattare i neonati, nel loro stato di debolezza.

Non è migliore la situazione nella potenza europea vincitrice, la Gran Bretagna. Per gli inglesi la situazione nell’immediato dopoguerra è peggiore che durante il conflitto. Durante l’inverno gelido del 1946-47 bisogna paracadutare in emergenza pacchi di cibo su villaggi isolati i cui abitanti rischiano di morire di fame. I razionamenti a Londra sono spietati: anche patate e cavoli si acquistano in quantità ridotte, con la tessera rilasciata dal governo. «È impossibile – dice il ministro degli Esteri Ernest Bevin nell’agosto del 1947 – pretendere che la gente lavori e produca senza mangiare, questa è la brutale verità». Sul magazine «The New Yorker» la giornalista americana Mollie Panter-Downes scrive: «Eccetto la mancanza di bombardamenti, per gli abitanti di Londra è come se la guerra non fosse finita. Di notte la città sembra sempre in attesa del nemico». L’elettricità manca continuamente, i blackout sono quotidiani, per mancanza di carbone. Dall’altra parte dell’Atlantico i bambini americani fanno collette nelle scuole per mandare ai loro coetanei europei i pacchi CARE: zucchero, farina, sapone. È su questa Europa – almeno sulla sua metà occidentale – che sta per arrivare la salvezza, come manna dal cielo: gli aiuti americani del Piano Marshall.

La storia del Piano Marshall è talmente importante che continua ad apparire nel nostro linguaggio quotidiano tre quarti di secolo dopo. Ne parliamo anche se siamo nati dopo, perché fa parte di una memoria collettiva «ereditata». Di fronte a una grave crisi economica è normale sentir dire ancora oggi che «c’è bisogno di un Piano Marshall». Nel 2020, quando gli Stati membri dell’Eurozona hanno trovato un accordo per lanciare il Recovery Fund e ricostruire le economie devastate da pandemia e lockdown, i paragoni con quel programma di aiuti sono stati frequenti. Eppure molti ignorano la vera storia del Piano Marshall – come nacque e perché; quanto fu grosso in termini monetari; quale fu il suo impatto finale. I fatti si perdono nella notte dei tempi, a quanto pare. «Piano Marshall» è diventato uno slogan, un’etichetta da riciclare continuamente. Eppure i dettagli di quella storia sono importanti, e ricchi di insegnamenti per noi.

L’Europa non sarebbe come la conosciamo, senza il Piano Marshall. È difficile trovare nella storia altri esempi di un progetto di aiuti così ben amministrato e così efficace, forse con la sola eccezione della occupazione-ricostruzione del Giappone (ma con metodi molto diversi).

Pochi conoscono

Eppure il totale dei finanziamenti che l’America versò all’Europa è meno immenso di quanto si creda. Nelle intenzioni originarie il Piano Marshall doveva costare al contribuente americano 17 miliardi di dollari di allora; alla fine ne furono spesi di meno, 13 miliardi in quattro anni dal 1948 al 1950. Aggiornati ai valori monetari di oggi, e alla dimensione che hanno raggiunto le nostre economie, ecco un’idea delle proporzioni reali. All’America quel programma di aiuti costa un decimo del suo intero bilancio federale: non è poco ma non è neppure uno sforzo gigantesco. È modesto se lo si paragona alla spesa bellica sostenuta fino a tre anni prima: il Piano Marshall o European Recovery Program (questo il suo nome ufficiale, abbreviato in ERP) costa solo il 5% del riarmo americano nella seconda guerra mondiale. Le dimensioni degli aiuti sono limitate perfino in proporzione alla ricchezza dei paesi riceventi: quei capitali americani nel momento in cui vengono versati valgono il 2,5% del Pil annuo delle nazioni europee beneficiate.

Per una nazione tra le più povere, l’Italia, forse il Piano Marshall arriva ad aggiungere in quattro anni l’11% del Pil. Ma per fare un paragone con l’attualità, il Recovery Fund approvato dall’Unione europea durante la pandemia del 2020 muoverebbe fondi pari al 20% del Pil. Eppure alla conclusione del Piano Marshall, in soli quattro anni la produzione industriale ha fatto un balzo del 64%. La rinascita dell’Europa è cominciata. Da lì hanno inizio i «miracoli» tedesco, francese e italiano della ricostruzione post-bellica. Un boom economico, certo, ma anche l’inizio di una rinascita psicologica e morale, per paesi marchiati dall’infamia dei nazifascismi (Germania e Italia) o da una umiliante débacle militare seguita dal collaborazionismo col nemico (Francia). Tante storie di successo che qualcuno oggi considera irripetibili. Com’è possibile aver ottenuto risultati così spettacolari con una spesa che non dissangua il contribuente americano, non sfascia gli equilibri di bilancio, non lascia in eredità montagne di debito pubblico da ripagare nelle generazioni successive?

Un altro mistero da chiarire è quello della «popolarità a scoppio ritardato». In America l’importanza del Piano Marshall non viene capita subito dall’opinione pubblica e una parte della classe politica lo osteggia. In Europa viene circondato di sospetti, soprattutto da parte di quelle forze di sinistra che fanno riferimento all’Unione sovietica. Nel clima della guerra fredda che sta iniziando proprio allora, è facile accusare gli americani di usare l’ERP per condizionare e manipolare gli europei, costringendoli a importare il «modello capitalista»: all’epoca questa diventa la linea di Josef Stalin, e convince tanti europei, non solo i comunisti. È solo col passare degli anni, o dei decenni, che attorno al Piano Marshall si è creata un’aureola radiosa. I suoi risultati benefici si sono visti meglio col passare del tempo. Anche confrontandoli con i risultati della ricetta alternativa, applicata dall’Unione sovietica nella metà d’Europa sotto il suo dominio.

Ma non è solo sul piano economico che bisogna rileggere il trionfo del Piano Marshall. Il suo ideatore, del resto, non è un economista. George Marshall è un militare, poi diventato segretario di Stato del presidente democratico Harry Truman. Come capo di stato maggiore nella seconda guerra mondiale, Marshall si è coperto di gloria. Il suo prestigio è ai massimi, quando accetta un incarico civile nell’esecutivo, e spende tutta la sua credibilità per questa missione strategica: evitare che gli Stati Uniti ripetano gli errori dell’altro dopoguerra. Woodrow Wilson, il democratico progressista che aveva trascinato un’America riluttante a intervenire tardivamente nella prima guerra mondiale, al termine non era riuscito a convincere il suo paese a esercitare un ruolo globale. L’America non aveva impedito – nella pace di Versailles, 1919 – quelle clausole vessatorie contro la Germania che avrebbero alimentato il revanscismo e il nazismo. Fallita la gestione della vittoria, gli americani si erano ritirati nell’isolazionismo.

Marshall, assecondato da Truman, progetta un secondo dopoguerra diverso. Non vuole ripetere l’errore di umiliare la Germania, dissanguarla con richieste di risarcimenti eccessivi che finiranno per resuscitare il vittimismo e il nazionalismo. Poi è convinto che l’America debba aiutare l’Europa a unire le proprie forze, in un nuovo ordine pacifico che includa la Germania stessa. È il grande progetto che lancia in un discorso all’università di Harvard il 5 giugno 1947. Diventerà legge, approvata dal Congresso in tempi rapidi, all’inizio dell’anno seguente.

L’ERP è solo in parte un figlio della guerra fredda. Certo, il premier inglese Winston Churchill ha già coniato l’espressione «cortina di ferro», per descrivere la progressiva separazione del Continente in due blocchi. Ma all’inizio gli americani offrono i loro aiuti finanziari a tutti. I governi di Polonia e Cecoslovacchia si dicono interessati a riceverli. È un diktat del leader sovietico Stalin che glielo impedisce. Poi la situazione a Est precipita, con il golpe comunista a Praga il messaggio di Stalin è chiaro: i paesi prima liberati e poi occupati dall’Armata rossa non sono sovrani, non hanno libertà nelle scelte di politica estera o nel sistema economico da adottare.

In Europa occidentale, il successo di Marshall ha più spiegazioni. La velocità degli aiuti: 11 giorni dopo il voto del Congresso che approva l’ERP, già partono dai porti americani le prime navi cariche di grano dirette a Bordeaux, Genova e Rotterdam. Il controllo sulle spese: la gestione dei finanziamenti americani viene affidata a un’authority efficiente nell’impedire sprechi e corruzione. Infine la «condizionalità»: Marshall è chiaro sul fatto che l’America aiuta gli europei solo se questi si aiutano fra loro. Il meccanismo dei finanziamenti a fondo perduto prevede che siano versati in dollari per favorire la ripresa del commercio tra i paesi del Continente. Grazie alla pressione di Washington, l’ultimo anno del Piano Marshall coincide con l’annuncio di un altro progetto: il Piano Schuman crea la Comunità del Carbone e dell’Acciaio (Ceca): il primo embrione di quel che diventerà l’Unione europea.



Letture
Greg Behrman, The Most Noble Adventure, Free Press.
Elizabeth Borgwardt, A New Deal for the World, Harvard University Press.
Luigi Einaudi, Scritti economici, storici e civili, I Meridiani Mondadori.
Tony Judt, Postwar. Europa 1945-2005, Laterza.
Ian Kershaw, All’inferno e ritorno, Laterza.
Nicolaus Mills, Winning the Peace, John Wiley.
Alan Milward, The Reconstruction of Western Europe, University of California Press.