Il laboratorio cinese in Africa

Dopo 25 anni, in cui Pechino ha condotto nel Continente nero una strategia commerciale senza ingerenze politiche, la Cina svolge per la prima volta il ruolo di paciere, fra chi si contende il potere nel più giovane Stato del mondo
/ 07.08.2017
di Pietro Veronese

La presenza commerciale cinese in Africa stupisce ormai solo chi non frequenta quel continente. Le merci a buon mercato made in China sono onnipresenti nei mercati e nelle botteghe; magazzini, hangar e depositi stracolmi di mercanzie con vistose insegne scritte in ideogrammi sono sorti negli anni alle periferie di tutte le maggiori metropoli. Grandi infrastrutture dal look inconfondibile si fanno riconoscere nei centri urbani: stadi, palazzi presidenziali, alberghi, centri conferenze. Per non parlare delle strade di grande comunicazione o addirittura delle due linee di metropolitana di Addis Abeba, la capitale etiopica; o delle fabbriche tessili o di interi rami d’industria, come le miniere di rame dello Zambia. Una buona parte dell’Africa odierna è fatta in Cina, oppure in mani cinesi. Parliamo di un interscambio commerciale che nel decennio 2003-2012 si è accresciuto dieci volte, da 20 a 200 miliardi di dollari, ed è in costante aumento. Un volume di affari e di investimenti che ha da tempo superato quello degli USA in Africa, occupando stabilmente il primo posto, e che secondo le stime entro il 2020 sarà di nuovo quasi raddoppiato, raggiungendo i 380 miliardi di dollari.

Tutto questo è avvenuto a condizioni che deliziano i governanti africani. A differenza degli investitori occidentali, i cinesi concedono prestiti con grande facilità e a tassi estremamente vantaggiosi, talora addirittura gratuitamente. Soprattutto – esattamente al contrario degli aiuti pubblici europei o nordamericani – non legano la cooperazione bilaterale al rispetto dei diritti umani o delle regole democratiche. Stringono la mano, elargiscono denaro e un sacco di sorrisi e così facendo si sono fatti negli anni moltissimi amici nelle capitali di tutto il continente. Già quasi dieci anni fa il libro ormai classico dell’economista zambiana Dambisa Moyo (Dead Aid, traduzione italiana La carità che uccide, Rizzoli 2009) fustigava gli aiuti allo sviluppo occidentali ed esaltava il ruolo economico della Cina in Africa.

In questo lungo e riuscitissimo cammino di penetrazione, il governo cinese ha sempre mantenuto un profilo relativamente basso. Certamente esso era in corsa per raggiungere una posizione di primato commerciale; non però altrettanto nell’arena diplomatica. Non ha mai cercato di far valere la propria partnership in termini di alleanze bilaterali o in una prospettiva geostrategica, se non forse quando ha avuto bisogno di qualche voto compiacente alle Nazioni Unite. Mentre la Cina affermava sempre più il suo rango di superpotenza, è rifuggita dal ruolo egemone che sembrava ormai competergli, ben contenta che quest’onere restasse appannaggio degli Stati Uniti d’America. Così andavano le cose in Africa, a immagine di quanto accadeva su scala globale.

Adesso però le cose stanno cambiando e la causa è, con tutta evidenza, la presidenza di Donald Trump. Un’America isolazionista, antagonistica, lontana dall’Europa, in ritirata da grandi accordi internazionali come quello sul clima, sempre più centrata sui propri interessi e ostile a un’ottica di governance globale, sta lasciando un vuoto. E la Cina è fatalmente chiamata a riempirlo, risucchiata in un ruolo che si va trovando costretta ad occupare con grande riluttanza. Lo si è visto molto bene al recente vertice G-20 di Amburgo, il 7 e 8 luglio, dove la cancelliera Angela Merkel ha vistosamente spinto il presidente cinese Xi Jinping sul proscenio mondiale nel ruolo del protagonista. In questo moto inesorabile verso un ruolo più attivo nel governo del mondo, la Cina sta forse prendendo per la prima volta un’iniziativa diplomatica nel tentativo di risolvere una devastante crisi molto lontano dai propri confini e dalla sua immediata sfera di influenza. Un laboratorio per rendere più concreto ed operante quello che già da tempo molti osservatori chiamano «il secolo cinese». Questo laboratorio si trova in Africa: è il Sud Sudan.

Il Sud Sudan, dodici milioni di abitanti, è il Paese più giovane del mondo: è diventato indipendente il 9 luglio 2011. I suoi governanti sono gli ex capi militari che per decenni hanno combattuto una guerriglia prima autonomista, poi indipendentista, contro le autorità centrali del Sudan. Finalmente, dopo un referendum tenuto qualche mese prima, sei anni fa si sono staccati dal governo di Khartum. Il presidente e il vicepresidente erano entrambi espressione di una forte base etnica: rappresentavano le due maggiori etnie del Paese, i Dinka e i Nuer. Dopo un biennio di faticosa collaborazione i due leader – molto più signori della guerra che uomini di Stato – sono giunti al punto di rottura e hanno cominciato a combattersi. Il Paese, già quasi totalmente privo delle più elementari infrastrutture, ridotto a una condizione di stentata sussistenza dai decenni del precedente conflitto, è precipitato nella tragedia. Lo scontro di potere ha immediatamente assunto il carattere di una feroce faida tribale. Successive tregue e fragili accordi di pace, negoziati mentre la stagione delle piogge imponeva comunque una tregua sul campo, sono più o meno naufragati con l’arrivo della stagione secca. Il Sud Sudan è oggi un gigantesco campo profughi alla fame, teatro di crimini inenarrabili e percorso da bande armate al di fuori di ogni controllo.

Questo Paese privo di sbocchi al mare ha una sola risorsa, ma cospicua: il petrolio. L’obiettivo quest’anno è superare i 300mila barili di produzione al giorno, con i quali i signori della guerra finanziano i propri conti personali e l’acquisto di armi. Il principale operatore estero nei giacimenti sudsudanesi, e il principale acquirente del loro prodotto, è la Cina. Lo era fin dai tempi in cui i giacimenti erano ancora territorio sudanese e appartenevano al governo di Khartoum; ha continuato ad esserlo con il nuovo Stato. Nel 2012-2013 l’interscambio tra i due Paesi superava i 500 milioni di dollari e in Sud Sudan erano registrate un centinaio di imprese cinesi attive nei settori petrolifero, delle costruzioni, delle telecomunicazioni, alberghiero, della ristorazione e del commercio al dettaglio. I cittadini cinesi residenti erano svariate migliaia.

Allo scoppiare della guerra civile l’alternativa era evacuare oppure tentare di favorire una tregua tra i contendenti. La fuga era stata la via scelta in Libia quando nel 2011 era esplosa la rivolta che avrebbe messo sanguinosamente fine al regime di Gheddafi: in dieci giorni, con una straordinaria operazione logistica, oltre 35mila cinesi erano stati evacuati via mare, terra e cielo. Un efficacissimo esempio della tradizionale politica di non interferenza più volte riaffermata da Pechino: cooperare sì, farsi coinvolgere no.

Ma in Sud Sudan la scelta è stata opposta. I motivi sono diversi, ma il principale è certamente che gli interessi cinesi minacciati sono cospicui. Forte della sua radicata presenza, dei buoni rapporti con tutti i protagonisti, dell’assenza di rivali nel ruolo di mediatori internazionali, per la prima volta la Cina si è fatta avanti. Formulando un nuovo principio – «soluzioni africane ai problemi africani» – si è presentata nel ruolo di semplice interlocutore, riuscendo a portare i contendenti e i rappresentanti degli Stati vicini a sedersi allo stesso tavolo. E continuando per tutto il tempo ad estrarre il petrolio sudsudanese, vitale per la sopravvivenza del Paese: gli interessi locali e quelli di Pechino coincidevano perfettamente. Avversa a qualunque forma di sanzioni internazionali, la diplomazia cinese ha anche mediato tra le autorità sudsudanesi e i governi occidentali inclini all’uso di quello strumento. Ha sempre preferito il ricorso alle organizzazioni regionali anziché coinvolgere direttamente le potenze europee o quella americana. La tregua sudsudanese, come si è detto, è molto fragile e largamente ignorata. Ma la Cina è ormai riconosciuta in tutta la regione come l’autorità internazionale di riferimento.

Quando Pechino avviò la sua politica commerciale verso l’Africa, ormai oltre un quarto di secolo fa, nessuno in Occidente prestò particolare attenzione. Vediamo cosa accadrà questa volta.