Il presidente degli Stati Uniti contro la sua intelligence, e viceversa: difficile immaginare un duello più esplosivo di questo. Eppure è quanto sta accadendo in queste prime settimane di operatività dell’amministrazione Trump. Il futuro di The Donald dipenderà in buona misura dall’esito di questo scontro.
La vicenda ha un precedente immediato e significativo. Hillary Clinton è infatti convinta di dovere la sua sconfitta contro Trump proprio alle interferenze dell’intelligence nazionale, in particolare del Federal Bureau of Investigations (Fbi), diretto da James Comey. Il quale durante la campagna elettorale intervenne pubblicamente, criticando Hillary, sull’inchiesta che i suoi uffici stavano conducendo riguardo all’uso improprio che la candidata democratica avrebbe fatto della sua email privata mentre era a capo della diplomazia a stelle e strisce, discutendovi questioni riservate normalmente affidate al server del Dipartimento di Stato. Oggi lo stesso Comey è il protagonista di uno scontro con l’uomo che Hillary considera lui stesso abbia indirettamente installato alla Casa Bianca.
Il 20 marzo, durante una seduta insolitamente pubblica e assai infuocata del Comitato per l’Intelligence della Camera dei Rappresentanti, Comey e il collega ammiraglio Michael S. Rogers, direttore della National Security Agency (Nsa), hanno rivelato che è in corso un’indagine per accertare se e come la Russia abbia interferito nell’elezione del presidente degli Stati Uniti. Sotto scrutinio sono in particolare i rapporti con Mosca di alcuni esponenti di primo piano del «cerchio magico» trumpiano, da Carter Page (consigliere di politica estera) a Paul Manafort (manager della campagna elettorale), da Roger Stone Jr. (consigliere politico) al generale Michael Flynn, costretto a dimettersi da Consigliere per la Sicurezza Nazionale pochi giorni dopo la nomina per le non chiarite conversazioni con l’ambasciatore russo a Washington.
Nulla di criminale, per ora, dato che tecnicamente si tratta di un’indagine di contro-intelligence, ma certamente una notevole ipoteca sulla nuova amministrazione.
La posizione di Manafort è piuttosto delicata, visto che secondo alcune inchieste mediatiche avrebbe collaborato in passato con un amico miliardario di Putin per favorire gli interessi russi. In termini stretti, uno dei principali collaboratori del presidente sarebbe un traditore della patria.
Comey stesso ha inoltre dichiarato di non dubitare che Putin intendesse favorire Trump, non fosse perché «odia» Hillary. Deputati democratici e repubblicani del Comitato per l’Intelligence hanno litigato su tutto, ma si sono ritrovati nel criticare la Russia, che nella definizione di Comey e Rogers è da considerarsi «potenza nemica». In parole povere, siamo tornati alla retorica della Guerra fredda, con la Russia trattata alla stregua della defunta Unione Sovietica.
Infine, a suggellare l’attacco a tutto tondo dell’Fbi e della Nsa contro Trump, la smentita dei capi dell’intelligence relativa alle mai provate accuse del presidente di essere stato spiato da Obama durante la campagna elettorale. Quanto all’insinuazione del presidente che Obama abbia dato mandato ai servizi britannici di spiarlo, per Rogers si tratta di «non senso, qualcosa di assolutamente ridicolo».
Uno scontro pubblico di queste proporzioni non ha precedenti e invita a due considerazioni di fondo.
La prima è che gli apparati burocratici, specie se di intelligence, hanno un potere di condizionamento fortissimo nei confronti della Casa Bianca. L’America sarà pure un impero, per quanto peculiarissimo, ma Trump non è un imperatore. I poteri del presidente sono limitati dal Congresso, dall’intelligence e dal Pentagono, come pure dal potere giudiziario e dalla pressione delle competizioni elettorali ravvicinate (il voto di mezzo termine per il rinnovo di parte del Congresso dista solo un anno e mezzo). Nel caso specifico, il passato (?) imprenditoriale del presidente lo espone a inchieste ed eventualmente ricatti sulle sue attività professionali. Questa, al di là delle intenzioni e dei proclami di Trump, è una spada di Damocle permanente sulla sua testa. E sulla possibilità che mantenga le promesse fatte ai suoi elettori.
La seconda notazione è che di fronte all’incertezza sul futuro di un presidente già sotto schiaffo dei «poteri forti» gli altri paesi, a partire dalla maggiori potenze, appaiono sconcertate. Che cosa vuole, che cosa può effettivamente Trump? Quanto forte è il rischio di stringere accordi impegnativi con un leader che può essere smentito da altri poteri, visibili e invisibili, interni agli Stati Uniti? Qualcuno a Mosca sostiene che, tutto sommato, sarebbe stato meglio avere a che fare con un nemico conosciuto, Hillary Clinton, piuttosto che con un presidente che a parole si era detto incline a un accordo con Putin, salvo poi fare parziale retromarcia anche per l’ostilità di Congresso, Pentagono e servizi di intelligence. Oltre che di gran parte dell’opinione pubblica, dove la russofobia è tornata di gran moda.
Un primo bilancio sarà presto stilato, allo scadere dei «cento giorni», la luna di miele più o meno assicurata di cui gode ogni presidente appena insediato. Per ora, di miele per Trump ce n’è davvero poco.