Il governo decide di non decidere

Accordo istituzionale CH-UE - Il Consiglio federale prende atto dell’esito dei negoziati con Bruxelles ma non intende parafarli, bensì aprire un’ampia consultazione interna
/ 17.12.2018
di Marzio Rigonalli

Cinque anni di negoziato, con oltre trenta sedute tecniche e vari incontri a livello politico, non sono bastati per sfornare un accordo istituzionale condiviso, suscettibile di essere sostenuto anche da un referendum popolare. Non c’è intesa tra Berna e Bruxelles e, quindi, rimane l’insicurezza su come si potranno sviluppare in futuro le relazioni tra la Svizzera e l’Unione europea. È una situazione che non giova alla nostra economia, che non offre quella certezza giuridica necessaria per sviluppare le relazioni bilaterali ottenendo vantaggi reciproci e che grava in modo pesante sulle prospettive di un piccolo paese come la Svizzera, situato nel cuore dell’Europa.

Qualche risultato concreto è stato ottenuto ed emerge dalla bozza di accordo che il Consiglio federale si è rifiutato di sottoscrivere, almeno per ora, e che è stata resa pubblica. Per esempio, la risoluzione delle vertenze attraverso un tribunale arbitrale, senza l’obbligo per la Svizzera di sottoporsi alla Corte di giustizia europea, o la non ripresa automatica per la Confederazione del diritto europeo, in svariati settori. Rimangono però due nodi gordiani, difficili da sciogliere. Il primo riguarda le misure di accompagnamento alla libera circolazione delle persone. Berna vuole mantenere le attuali misure di lotta contro il dumping salariale, che obbligano le aziende europee a notificare alle autorità elvetiche l’invio di manodopera con un preavviso di otto giorni, nonché a deporre una somma di denaro come garanzia per far fronte ad eventuali infrazioni. L’UE chiede che gli otto giorni vengano ridotti a quattro e che l’obbligo di deporre una garanzia venga applicato soltanto alle aziende che hanno già compiuto infrazioni. Il secondo nodo concerne la direttiva dell’UE sull’estensione dei diritti dei suoi cittadini. La direttiva non vien menzionata nella bozza di accordo, ma Berna teme che Bruxelles cercherà in tutti i modi di farla applicare anche sul territorio elvetico. La direttiva prevede che i cittadini comunitari possano accedere più facilmente all’aiuto sociale, godano di una più forte protezione contro l’espulsione ed abbiano il diritto di soggiorno dopo cinque anni. Sono misure che implicherebbero una spesa non trascurabile per la Confederazione.

Il risultato raggiunto fin ora non allontana i dubbi sul modo in cui il negoziato è stato gestito negli ultimi cinque anni. Le richieste dell’Unione europea, in particolare quelle sulle misure di accompagnamento, erano note da tempo e sono state affrontate con tutta la serietà necessaria soltanto negli ultimi mesi, coinvolgendo, o per lo meno tentando di coinvolgere, le parti sociali. Lo scontro con l’intransigenza dei sindacati, ossia la parte sociale maggiormente vicina a questa problematica, è stato frontale. L’impressione dominante è che il Consiglio federale, in tutti questi anni, non abbia coinvolto con la dovuta attenzione tutte le forze che hanno voce in questo capitolo, e che non sia stato capace di investire tutte le energie necessarie per poter trovare una soluzione rassicurante in questo importante dossier europeo. Ha optato per delle linee rosse, che rispondevano sicuramente a delle forti esigenze, ma che hanno reso la trattativa estremamente difficile, e si è messo in prima fila soltanto alcune volte. Alla fine, si è ritrovato con un accordo insoddisfacente, che non ha potuto sottoscrivere, perché non sarebbe stato approvato dal popolo, e nemmeno rifiutare, perché avrebbe compromesso seriamente la via maestra degli accordi bilaterali.

Che cosa succederà ora? Sul piano interno, il Consiglio federale cercherà di trovare una soluzione che migliori la bozza dell’accordo bilaterale e che possa essere accettabile anche per l’Unione europea. Lo farà lanciando un’ampia consultazione interna, nella quale verranno coinvolti le commissioni di politica estera del Consiglio nazionale e del Consiglio degli stati, i partiti politici, i governi cantonali e i partner sociali. La consultazione durerà fino in primavera e avverrà con due nuovi protagonisti, per lo meno per quanto concernono le misure di accompagnamento. Dal 1. gennaio, il nuovo capo del Dipartimento federale dell’economia sarà Guy Parmelin e non più Johann Schneider-Ammann. Cambierà anche il vertice dell’Unione sindacale svizzera. Paul Rechsteiner cederà la presidenza a Pierre-Yves Maillard. Il cambio è previsto soltanto in primavera, ma è immaginabile che il nuovo presidente sarà attivo da subito e che darà una sua impronta al processo di consultazione. Parmelin e Maillard sono vodesi. È difficile dire se la stessa origine cantonale aiuterà a trovare un compromesso. Le premesse, però, non consentono molto ottimismo. Nei suoi tre anni di guida del Dipartimento federale militare, Parmelin non ha raggiunto risultati significativi. Sarebbe una sorpresa se riuscisse là dove ha fallito Schneider-Ammann. Dal canto suo, l’USS, dopo aver preso conoscenza della bozza di accordo, ha subito ribadito di non essere disponibile a trattare sulle misure di accompagnamento.

Sul piano europeo, le prime reazioni sono improntate alla prudenza. L’UE lascia al Consiglio federale il tempo che richiede per trovare un consenso interno, ma ribadisce la sua convinzione che l’accordo trovato sia il migliore possibile. Non si dimostra pronta a fare altre concessioni e, per mantenere alta la pressione sulla Svizzera, ha lasciato trapelare la notizia che potrebbe prolungare l’equivalenza della Borsa elvetica, in scadenza alla fine di dicembre, di altri sei mesi. La decisione in merito verrà presa fra pochi giorni.

L’esito del lungo braccio di ferro tra Berna e Bruxelles rimane dunque incerto. Da parte svizzera sarebbe uno sbaglio sperare in una maggiore comprensione da parte dell’UE, speculando sulle tante debolezze che oggi caratterizzano l’Unione, con la Brexit che non ha ancora trovato uno sbocco sicuro, il ritorno dei nazionalismi, l’indebolimento della Germania e della Francia alle prese con problemi interni, la manovra finanziaria azzardata dell’Italia, i paesi del gruppo di Visegrad che si muovono in modo autonomo, la Svezia che da mesi sta senza un nuovo governo e le difficoltà che l’UE incontra per poter reggere il confronto internazionale con gli Stati Uniti, la Cina e la Russia. E sarebbe pure uno sbaglio attendere le elezioni europee del prossimo mese di maggio, sperando che con il probabile arrivo di un nuovo presidente e di nuovi commissari, la Commissione europea cambi il suo atteggiamento nei confronti della Svizzera. È invece urgente agire in tempi rapidi, per trovare un consenso interno, sufficientemente ampio, che non implichi troppi sacrifici e che si avvicini alle esigenze dell’Unione.

Ogni giorno, la Svizzera e l’UE scambiano beni per un miliardo di franchi. La Confederazione è importante per l’Unione europea, ma l’UE è essenziale per la Svizzera, per gli sbocchi che offre alla sua economia, per le risorse e le condizioni che offre alla formazione ed alla ricerca, per gli oltre cento accordi bilaterali che caratterizzano i suoi rapporti esterni. Le buone relazioni bilaterali sono un valore che non va sprecato.