Il golpe traballa

Sudan - La protesta popolare mette in difficoltà il generale al Buhran, nuovo capo di Stato
/ 08.11.2021
di Pietro Veronese

Per la seconda volta in due anni, è stata la resistenza popolare ad allontanare i militari dal potere in Sudan. Per la verità, nel momento in cui scriviamo, l’esito finale del colpo di Stato del 25 ottobre appare ancora in forse. Il primo ministro rimane agli arresti domiciliari e il generale al Burhan sembra controllare la situazione. Ma il Paese è paralizzato dagli scioperi, l’isolamento internazionale dei golpisti è totale e la loro ultima mossa – proporre al primo ministro, che tengono sotto sorveglianza armata, di formare un nuovo governo – ha tutta l’aria della goffa ricerca di una via d’uscita.

Nel frattempo, la mobilitazione popolare prosegue a Khartoum, la partecipazione è altissima. Decine di migliaia di persone si sono riversate per le strade sfidando lo schieramento di polizia ed esercito. L’economia è di fatto bloccata a causa della straordinaria decisione dei bancari sudanesi di avviare una campagna di disobbedienza civile a oltranza. La loro associazione di categoria la ha definita una «escalation rivoluzionaria». I bancomat sono una rarità in Sudan e senza la possibilità di rifornirsi di contanti agli sportelli le famiglie sono rimaste in pochi giorni senza soldi. È una situazione che fa riaffiorare la memoria lontana della rivoluzione iraniana del 1979, quando l’adesione alle proteste da parte dei commercianti del bazar di Teheran preannunciò il crollo del regime dello scià.

Eppure il colpo di Stato era stato preceduto da manifestazioni di protesta, che chiedevano a gran voce per le strade della capitale una presa di potere da parte dei militari. La rivoluzione del 2019 – che aveva portato alla caduta del regime di Omar al Bashir grazie all’inquieta alleanza tra rivolta di piazza e forze armate – aveva finito per deludere le aspettative. La lunga transizione guidata da un governo composto di civili e generali, incaricato di preparare le elezioni per il 2022, non aveva dato i frutti sperati. Il Paese ha continuato ad affondare in crescenti difficoltà economiche, la mancanza di lavoro ha disilluso la gioventù che era stata l’anima delle proteste. E le speranze si sono spente. I militari hanno pensato che fosse giunto il loro momento; ma immediatamente le barricate sono sorte in vari nodi stradali di Khartoum e la coralità della reazione popolare – costata per il momento almeno venti vittime tra i manifestanti, secondo stime americane – ha dimostrato che i loro calcoli erano sbagliati.

Gli esperti di affari internazionali e geopolitica sono convinti che dietro la mossa del generale al Burhan ci sia l’attivo suggerimento degli Emirati Arabi e il beneplacito della Russia. Ma nessuno, sulla scena diplomatica, ha osato pronunciarsi in favore del colpo di Stato; mentre il fronte dei contrari, capeggiato dagli Stati Uniti, ha agito subito e compatto. Le condanne sono fioccate da ogni parte, i governi africani sono stati unanimi. L’Amministrazione Biden ha immediatamente sospeso gli aiuti al Sudan, nell’ordine dei 700 milioni di dollari, vitali per la sopravvivenza del Paese e del suo apparato militare e statale. Jeffrey Feltman, inviato speciale della Casa Bianca, è sbarcato a Khartoum accusando il generale golpista di doppiezza e malafede – «Diceva di sostenere la via costituzionale alle elezioni, ma agiva all’opposto, sabotando la collaborazione tra militari e civili». Feltman ha chiesto il pronto rilascio dei prigionieri, a cominciare dal primo ministro: «il popolo sudanese ha fatto capire con chiarezza che non accetterà tentativi di mettere fuori causa la transizione democratica per la quale si è duramente battuto».

Questa contrapposizione frontale ha fornito al rappresentante Onu in Sudan, lo stimato tedesco Volker Perthes, l’opportunità di tentare una mediazione, facendo la spola tra la residenza del premier Abdalla Hamdok e al Burhan. Forse l’idea, all’apparenza paradossale, di chiedere al prigioniero di capeggiare un nuovo governo è il primo frutto dei suoi sforzi.

Nei colloqui di Perthes c’è un terzo incomodo. Oltre ad al Burhan e Hamdok, l’inviato Onu sta incontrando un secondo generale, Mohammed Hamdan Dagalo, generalmente noto con il soprannome di Hemeti, che dobbiamo considerare l’anima nera del Sudan. Hemeti viene dal Darfur, dove ha combattuto nella lunga rivolta di quella remota regione guidando delle spietate milizie filogovernative. Dei suoi servigi è stato ricompensato con la cooptazione negli alti ranghi militari e l’inquadramento delle sue bande armate come Forza di intervento rapido dell’esercito. Dalla caduta del regime di al Bashir nel 2019, Hemeti è sempre stato il numero due. I bene informati dicono che non sarà mai il numero uno, perché è di origini troppo modeste ed è privo di formazione. Ma il suo potere è molto grande, così come la fortuna che ha accumulato negli anni fino a diventare uno degli uomini più ricchi del Paese. Nessuno oggi può pensare di governare il Sudan senza o contro di lui. Hemeti non figura mai in prima fila, ma dietro le quinte è lui ad avere le chiavi del futuro del Sudan.