Il gigante ferito

Etiopia – Lo scontro con gli indipendentisti del Tigray diventa sempre più preoccupante perché avviene in una regione delicata e apre scenari di destabilizzazione profonda
/ 07.12.2020
di Pietro Veronese

Gli eventi che si sono susseguiti nelle ultime settimane in Tigrè, arida e montuosa regione settentrionale dell’Etiopia, hanno le stimmate della tragedia. Una guerra fratricida dichiarata di punto in bianco all’interno dei confini nazionali da un primo ministro insignito l’anno scorso, per colmo di amara ironia, del Nobel per la pace. Un numero imprecisato di persone – ma sicuramente nell’ordine delle decine di migliaia – che si è riversato oltre confine, in Sudan, per sfuggire ai bombardamenti e ai combattimenti. La conseguente crisi umanitaria, immediatamente innescatasi in campi profughi affidati alle Nazioni Unite, sovraffollati e malamente riforniti. I primi sintomi di una carestia generalizzata in tutto il nord dell’Etiopia. La prospettiva di un gigante dell’Africa ridotto a pezzi, divorato da un’autodistruzione inarrestabile. L’ipotesi di una «Jugoslavia africana», una guerra di dissoluzione della federazione etiopica, che ricorre con insistenza in questi giorni nelle analisi degli specialisti.

Con i suoi 105 milioni di abitanti, la vastità del suo territorio, la sua storia millenaria, un’economia che nell’ultimo ventennio ha compiuto passi straordinari, l’Etiopia ha il rango indiscusso di potenza regionale, fattore di stabilità e di riferimento per l’intero Corno d’Africa. La possibilità che la crisi politico-militare in corso possa internazionalizzarsi – già coinvolge Sudan e Eritrea – prospetta scenari raccapriccianti. Di sicuro le diplomazie europee sono molto preoccupate, ansiose se non altro di evitare l’abbattersi di uno tsunami di profughi sulle loro coste meridionali. Sorprende invece la distrazione delle opinioni pubbliche, tutte assorbite dall’emergenza Covid. In altri tempi la guerra civile etiopica avrebbe campeggiato sulle prime pagine.

L’ascesa del primo ministro Abiy Ahmed, due anni e mezzo fa, ha segnato una svolta capitale. Il giovane leader ha fatto spirare immediatamente un vento di riforma, di apertura e rinnovamento. Il primo effetto è stato la pace con l’Eritrea, la quale ha risolto un conflitto bloccato da un quarto di secolo (da cui il Nobel). La nomina di Abiy ha significato tuttavia anche una rottura negli equilibri di potere al vertice della federazione etiopica, con la sconfitta politica del gruppo dirigente tigrino. Dall’inizio degli anni 90, quando aveva abbattuto con la sua trionfale marcia su Addis Abeba la dittatura di Menghistu, il Tigray People’s Liberation Front era rimasto arbitro delle sorti politiche del Paese.

Ventisette anni dopo, nel breve e feroce scontro politico che ha portato alla scelta a sorpresa del poco più che quarantenne Abiy, si è ritrovato in minoranza, isolato e perdente. I suoi attuali leader sono apparsi d’un tratto uomini del passato. L’impetuoso rinnovamento demografico della nazione ha portato alla ribalta una nuova generazione. I vecchi del Tplf, nostalgici di un eroico passato guerrigliero, si sono ritirati a Macallè, dove potevano esercitare gli ampi poteri garantiti dall’autonomia regionale: dopotutto la riforma dello Stato in senso federale era stata opera loro. Sono passati all’opposizione e aspettavano la loro ora.

Il momento è arrivato nella primavera 2020. I successi internazionali di Abiy Ahmed, il suo prestigio personale, il ruolo di mediatore in conflitti regionali come la crisi politica del Sudan e la guerra civile sud-sudanese, non sono stati accompagnati da analoghi successi all’interno dell’Etiopia. La sua appartenenza all’etnia Oromo, e i suoi sforzi di apertura democratica, hanno paradossalmente portato alla ribalta, anziché sopirla, la più annosa questione politica dell’Etiopia. Nel mosaico etnico di quel grande Paese, gli Oromo costituiscono il gruppo più numeroso – un cittadino etiopico su tre appartiene a questa etnia – eppure sono sempre stati tenuti lontano dal potere. Sudditi ai tempi dell’impero, subalterni in quelli successivi, con l’avvento di Abiy gli Oromo hanno preso a rivendicare con veemenza maggiore autonomia e potere.

Grandi manifestazioni nella capitale e nei capoluoghi regionali del centro-sud, scontri di piazza, repressione violenta, morti extra-giudiziali hanno creato un crescente clima di instabilità, sul quale si è innestata la pandemia di Covid, con i conseguenti provvedimenti di contenimento. La situazione ha spinto il primo ministro a rimandare – analogamente ad altri Paesi – le elezioni previste per agosto, le prime del suo mandato. Immediatamente, i dirigenti tigrini hanno condannato il provvedimento; in un crescente scontro verbale tra Macallè e Addis Abeba, le elezioni si sono svolte regolarmente in Tigrè il 9 settembre.

Da quel momento, lo scontro armato è apparso inevitabile. Le due parti negano ciascuna la legittimità dell’altra. Il Tigrè ha dichiarato illegittimo il potere federale, perché non più eletto; e questo rifiuta di riconoscere il voto tigrino. I finanziamenti federali al bilancio regionale sono stati bloccati, sottoponendo di fatto il Tigrè a un embargo economico. Dalle accuse si è passati agli insulti e il dialogo si è interrotto. Abiy Ahmed, che ha conseguito un dottorato di ricerca all’università di Addis Abeba con una tesi sulla mediazione dei conflitti, ha respinto con sdegno ogni offerta di mediazione internazionale. Considera il pronunciamento tigrino un principio di secessione, una minaccia intollerabile all’integrità dei confini etiopici. Dopo un ultimatum in piena regola e un’intimazione di resa, il 4 novembre le forze armate etiopiche sono entrate in Tigrè.

Da quel giorno il nord dell’Etiopia è rimasto avvolto in una cortina di silenzio che lo imprigiona ancor oggi. I confini sono sigillati, i giornalisti interdetti, i collegamenti bloccati. Telefoni, email, internet sono tagliati. Nemmeno le organizzazioni umanitarie riescono a interloquire con il loro personale sul terreno. L’unica voce è quella dei profughi che raggiungono il Sudan con i loro racconti atterriti e traumatizzati. Secondo le Nazioni Unite, la sopravvivenza di 600mila persone in Tigrè dipendeva dagli aiuti alimentari prima del conflitto: in novembre, e ora in dicembre, le razioni non sono più arrivate a destinazione.

Nella tarda serata di sabato 28 novembre Abiy Ahmed ha annunciato che Makallè era «sotto il controllo delle Forze di difesa nazionali». Quale sia stato il costo materiale e umano della conquista del capoluogo tigrino, lo sanno solo i civili rimasti intrappolati nell’abitato. Quel che è certo, per il momento, è che i dirigenti del Tplf sono sfuggiti alla cattura. Con ogni probabilità cercheranno di organizzare una resistenza. Salve di missili hanno colpito a nord la capitale dell’Eritrea, Asmara, e a sud Bahar Dar, capoluogo della regione degli Amara, in un evidente tentativo di estendere il conflitto.

Le aspre montagne tigrine hanno costituito in passato un terreno leggendario per le gesta di lotta partigiana, contro l’invasore coloniale italiano come contro le divisioni di Menghistu. Ma non è detto che il mito si rinnovi ai danni di un regime democratico, il quale afferma di agire in base al dettato costituzionale. Se questo dovesse accadere, il pericolo per l’unità dell’Etiopia si farebbe mortale. Le frange più radicali della complessa galassia politica oromo potrebbero essere tentate di seguire l’esempio tigrino e prendere le armi. Addis Abeba si troverebbe a dover combattere su due fronti. In questi giorni, le Nazioni Unite, l’Unione Africana, altre organizzazioni regionali e internazionali sono al lavoro nel tentativo di sostenere il gigante ferito.