Il Giappone ha un nuovo imperatore

L’èra Reiwa – Uno dei problemi più urgenti che dovrà affrontare Naruhito, il successore di Akihito, è il disastro demografico della società intrappolata nelle sabbie della depressione e della stagnazione economica
/ 13.05.2019
di Giulia Pompili

Il luogo simbolo della tradizione, dei riti e della memoria ha cambiato volto per sempre. Il Giappone, cioè l’unico impero ancora rimasto nel mondo, dove la modernità è sempre faticosamente amalgamata all’antico e al sacro, è entrato in una nuova èra. L’imperatore Akihito, a ottantacinque anni e dopo trent’anni di servizio, ha lasciato il Trono del Crisantemo lo scorso 30 aprile, in una cerimonia che non avveniva da secoli. Al suo posto, il 1° maggio, è diventato emblema dello Stato giapponese Naruhito, il suo primo figlio maschio, nato cinquantanove anni fa. E a ogni imperatore che cambia, secondo il calendario tradizionale giapponese, cambia anche un’epoca a cui si assegna un nome che è anche un indirizzo, anzi, una direzione. Quella che si è appena conclusa si chiamava Heisei, «la pace ovunque»: quando Akihito divenne imperatore nel 1989, per i giapponesi fu davvero la fine di un ciclo che aveva portato il Paese attraverso le guerre Mondiali, e lo shock indelebile delle Bombe atomiche. La parola pace nel nome di un nuovo periodo storico non poteva che essere di buon auspicio. 

Quella che è appena iniziata si chiama invece èra Reiwa, che secondo la traduzione ufficiale vuol dire «bellissima armonia». La scelta dei caratteri tradizionali giapponesi che formano la parola corrispondente al periodo si basa su un processo antico, di selezione degli esperti che faranno delle proposte e poi, in tempi recenti, si è passati a dare al potere temporale, cioè all’esecutivo nella persona del primo ministro, la facoltà di decretare la favorita tra cinque diverse proposte. Anche se nella realtà si tratta di una scelta piuttosto pragmatica e formale, quella di dare un nome alla nuova èra resta una decisione misteriosa e quasi magica, capace di influenzare davvero la vita quotidiana dei giapponesi.

Questa è la prima volta in cui i caratteri non sono stati scelti dalla letteratura cinese ma da quella nipponica, il segno di un’attenzione più esplicita al proprio passato e alla propria arte. In una lingua fatta di ideogrammi non esistono traduzioni esatte dei termini, ma i caratteri corrispondono per lo più a concetti profondi, evocativi. Il carattere «rei» ha a che fare con una bellezza completa, un’armonia fatta anche di regole ineluttabili – e non a caso il ministero degli Esteri giapponese ha dovuto diffondere una traduzione ufficiale, perché per la maggior parte degli interpreti il primo significato del carattere «rei» è «ordine», una parola che poteva apparire vagamente autoritaria. Il secondo carattere, «wa», corrisponde alla pace, alla calma e alla quiete. E sono tutte formalità da applicare ai documenti ufficiali, che però segnano un punto di passaggio, e un momento di riflessione sul passato e sul futuro.

Tutti i giapponesi ricordano l’èra Heisei di Akihito come l’èra della grande stagnazione. Il boom economico, negli anni Ottanta, aveva portato il Giappone a competere con il colosso americano per la leadership dell’economia mondiale. Tokyo era diventata la capitale della tecnologia, e tutto ciò che arrivava da oriente corrispondeva a un certo grado di produttività e qualità. Quel modello economico non ha funzionato a lungo. Soprattutto a livello sociale la nascita della classe dei salaryman, i dipendenti delle grandi aziende, aveva trasformato gli uomini in pezzi di un ingranaggio infaticabile, inarrestabile, le cui conseguenze si vedono ancora oggi. Inoltre la grande stagnazione era alle porte: per un ventennio il Giappone è diventato un paese che produce solamente e non consuma: il «decennio perduto» è iniziato nel 1991, quando Akihito era imperatore da soltanto due anni, con lo scoppio della bolla del mercato azionario e immobiliare nipponico che segnò la fine del boom economico del Dopoguerra. 

Il lungo periodo di deflazione che ne seguì viene definito dagli economisti come il più lungo mai registrato, ma secondo gli analisti giapponesi e numerosi studi commissionati dal governo di Tokyo il problema non era soltanto il mercato, era la società, bloccata nelle sabbie mobili della depressione. Secondo i dati pubblicati qualche giorno fa dal Ministero dell’interno nipponico, durante i trent’anni di èra Heisei il numero di bambini nati in Giappone è diminuito di un terzo. Sono 15 milioni 330 mila i bambini sotto i 15 anni attualmente nel paese del Sol levante, il numero più basso da quando Tokyo ha iniziato il censimento nel 1950. È uno dei problemi più urgenti della nuova èra Reiwa, il disastro demografico di cui da tempo cerca di far fronte il primo ministro conservatore Shinzo Abe. 

Il tasso di natalità del Giappone è il più basso del mondo, e l’invecchiamento della popolazione e l’allungamento dell’aspettativa di vita sta portando a un cambiamento radicale della società: dal 2020 e il 2060, secondo le proiezioni, la popolazione in età da lavoro scenderà del 30 per cento, con evidenti conseguenze dal punto di vista della crescita economica. «I giovani tendono a risparmiare di più perché sono più preoccupati per il futuro», ha detto al Nikkei Asian Review Hiroshi Nakaso, presidente dell’istituto di ricerca Daiwa ed ex vicegovernatore della Banca centrale del Giappone. «Anche le imprese frenano gli investimenti per l’incertezza sulla crescita». Uno dei simboli del calo demografico e della depressione economica è proprio la nuova coppia imperiale. Naruhito, il primo sovrano nato dopo la Seconda guerra mondiale, che ha studiato all’estero ed è aperto al mondo, nel 1993 ha sposato Masako, una diplomatica. La principessa triste, come è stata soprannominata quindici anni fa, quando le fu diagnosticata una grave forma di depressione, è stata costretta ad abbandonare la sua carriera per entrare nella famiglia imperiale. Secondo le regole della successione al Trono del Crisantemo, il suo unico scopo, una volta spogliata della sua identità da cittadina comune, era quello di consegnare all’impero un erede maschio, l’unico che avrebbe potuto ascendere al trono. E lei non ci è riuscita. L’imperatore e l’imperatrice del Giappone hanno soltanto una figlia femmina, Akio, nata nel 2001, che non potrà mai diventare imperatrice in quanto donna – a differenza di suo cugino, il dodicenne Hisahito.

La subalternità della figura femminile nella società giapponese è uno dei motivi della crisi demografica. Nel suo rapporto annuale sulla parità di genere, il World Economic Forum ha classificato il Giappone all’ultimo posto tra i paesi del G7. Le donne sono istruite, spesso più degli uomini, ma la cultura della produttività – retaggio dell’èra Heisei – porta i maschi a lavorare oltre le quattordici ore al giorno, e le donne ad abbandonare ogni velleità professionale per occuparsi solo della famiglia. È per via di questa prospettiva che molte donne preferiscono non sposarsi, oppure non avere delle relazioni stabili.

Il governo di Abe nel 2012 ha lanciato una campagna di women empowerment, la cosiddetta Womenomics, senza grandi risultati: la richiesta di «quote rosa» nei board delle grandi aziende ha in parte funzionato, ma quando il governo ha domandato di ridurre gli orari di lavoro e lasciare più giorni liberi ai dipendenti – per occuparsi della famiglia, ma anche per spendere, consumare – le aziende hanno realizzato ben poco. Ma se la famiglia imperiale rappresenta la società giapponese, c’è anche chi vuole cambiarla: secondo un sondaggio pubblicato la scorsa settimana da «Kyodo News», l’80 per cento dei giapponesi è favorevole alla modifica della legge che impedisce alle donne di diventare imperatrici. E questa sì che sarebbe la vera rivoluzione Reiwa.