Ambiente, vaccinazioni, protezionismo, politica estera e sfida alla Cina, sono i temi che hanno dominato le prime due settimane della nuova America. «Abbiamo atteso troppo per affrontare la crisi del clima. È una minaccia esistenziale. È davanti ai nostri occhi, la sentiamo. È ora di agire». Così Joe Biden ha annunciato la sua firma a una serie di ordini esecutivi sull’ambiente che rovesciano la deregulation dell’Amministrazione Trump in favore dell’energia fossile. Gli Stati uniti fisseranno presto degli impegni vincolanti e precisi per la riduzione delle loro emissioni carboniche, in obbedienza agli accordi di Parigi. Il suo super-ambasciatore mondiale per l’ambiente, l’ex segretario di Stato John Kerry che ebbe un ruolo decisivo negli accordi del 2015, convocherà il 22 aprile (il Giorno della Terra) un summit mondiale sul clima.
Tra i tanti decreti presidenziali firmati da Biden, quello che avrà il maggior impatto immediato impone all’authority per l’ambiente (Environmental protection agency) di ripristinare le riduzioni obbligatorie nelle emissioni di CO2 che furono imposte da Barack Obama per auto, camion, centrali elettriche. Biden ha annunciato anche la fine di tutti i sussidi federali per le energie fossili. Il presidente ha insistito su un linguaggio positivo nel presentare la svolta ambientalista: non all’insegna dei sacrifici, ma delle opportunità che si creano. Per esempio ha sottolineato la possibilità di «creare un milione di posti di lavoro» grazie al piano di conversione di tutte le flotte automobilistiche pubbliche, che presuppone massicci acquisti di auto elettriche da parte del Governo federale.
I più ambiziosi e costosi di questi progetti, tuttavia, non sono contenuti negli ordini esecutivi: devono essere approvati al Congresso. L’iter per fare accettare fino a duemila miliardi di dollari di investimenti in progetti legati alla transizione sostenibile non sarà né breve, né scontato. La stessa abolizione dei sussidi federali per le energie fossili deve passare dal Congresso come tutte le leggi di prelievo o di spesa pubblica. Quei rappresentanti di Stati Usa (non solo a destra) che hanno abbondanti risorse di gas, petrolio e carbone non si lasceranno convincere facilmente. Per questo Biden ha insistito sul risvolto positivo, il lavoro che si crea, non su quello che si distrugge. Anche per non ripetere l’errore di Hillary Clinton nel 2016 quando regalò a Trump i consensi di una classe operaia – minatori, siderurgici, perfino metalmeccanici – preoccupata da un «assalto verde» ai posti di lavoro nelle industrie tradizionali.
Fra i provvedimenti figura uno stop a tutte le concessioni per la ricerca e l’estrazione di gas e petrolio su terreni e fiumi federali. I terreni federali, compresi quelli che sono riservati alle tribù di nativi americani, rappresentano quasi un quarto di tutta l’emissione di CO2 e le concessioni alle aziende energetiche generano un gettito fiscale di quasi 12 miliardi di dollari all’anno. Già nel giorno del suo giuramento, il 20 gennaio, Biden aveva bloccato il completamento dell’oleodotto Keystone XL che avrebbe dovuto collegare il Canada al Golfo del Messico. Una parte di questi gesti sono simbolici, vogliono segnalare la volontà degli Usa di tornare ad avere una leadership mondiale nella lotta contro il cambiamento climatico.
Biden accelera poi il passo sulle vaccinazioni. Fino al giorno del suo insediamento l’obiettivo ufficiale era «100 milioni di vaccinazioni nei primi 100 giorni». Ma una volta insediato alla Casa Bianca il nuovo presidente si è reso conto di avere ereditato da Trump una situazione migliore – almeno su questo fronte – di quanto credeva. La tabella di marcia di un milione di vaccini inoculati ogni 24 ore era già rispettata o superata due settimane fa. Gratis per tutti, inclusi gli immigrati illegali. Il fatto che gli Stati uniti a fine gennaio abbiano vaccinato la propria popolazione più del triplo rispetto all’Europa continentale (oltre il 7% degli abitanti), è ancora merito della vecchia Amministrazione. Ma non basta, e Biden ha aggiustato la mira al rialzo: «Un milione e mezzo di vaccini al giorno, possiamo e dobbiamo farcela». Si tratta di un’accelerazione del +50% rispetto alla velocità di crociera precedente.
A questo fine Biden ha già firmato l’acquisto di 200 milioni di dosi in più da Pfizer e Moderna. Anche qui si tratta di un aumento del 50%, rispetto all’acquisto iniziale di 400 milioni di dosi. Entro l’estate l’Amministrazione Biden conta di avere 600 milioni di vaccini, sufficienti per tutta la popolazione. L’idea che i migliori risultati americani avvengano ai danni dell’Europa non sembra avere fondamento. La Pfizer ha centri di produzione distinti; il mercato americano viene rifornito da tre fabbriche che si trovano nel Michigan, Missouri e Wisconsin. Fin dall’inizio la corsa ai vaccini è stata segnata da un investimento superiore da parte degli Usa, tempi di approvazione più rapidi a Londra e Washington, nonché una maggior fiducia nella nuova tecnologia genetica usata da Pfizer e Moderna.
«Buy american», la versione di sinistra del protezionismo di Trump, ha cominciato a concretizzarsi in un ordine esecutivo firmato Biden. È la lezione che il nuovo presidente ha tratto dalla popolarità del suo predecessore: se si vuole affrontare alla radice una delle cause profonde del trumpismo, bisogna anteporre gli interessi dei lavoratori Usa a quelli delle multinazionali. Il decreto presidenziale «Buy american», cioè «compra americano», per adesso si limita a rafforzare protezionismo e autarchia nel mercato delle commesse pubbliche. Rende più stringente per tutti i rami dell’amministrazione federale l’obbligo di fornirsi presso aziende americane e di verificare che i prodotti acquistati abbiano un contenuto quasi esclusivamente made in Usa. Il trend autarchico ha avuto un ulteriore rafforzamento dalla pandemia: quando gli americani hanno scoperto di dipendere dalla Cina per le forniture di mascherine, tute protettive e medicinali salva-vita, la questione è diventata anche una priorità per la sicurezza nazionale e la salute pubblica.
Le nubi che si addensano lungo l’asse Washington-Pechino sono anche e soprattutto geopolitiche. Non c’è stato un solo segnale di disgelo fra le due superpotenze, anzi, l’insediamento di Biden è stato «salutato» da incursioni di squadroni aerei militari cinesi sui cieli dello stretto di Taiwan. Quando Biden stava pronunciando il giuramento Pechino si distingueva per un nuovo attacco delle sue forze armate ai soldati indiani lungo la frontiera contestata tra Tibet e Sikkim. Come Taiwan, anche l’India fa parte di quell’arco di democrazie che l’America considera alleate preziose per contenere l’espansionismo cinese. A sua volta l’Amministrazione Biden ha moltiplicato gli sgarbi diplomatici. Alla cerimonia dell’Inauguration day è stato invitato il rappresentante diplomatico di Taiwan a Washington, cosa che non accadeva dal 1979, quando gli Usa riconobbero la Repubblica popolare come «l’unica Cina» e i rapporti con Taiwan per quanto amichevoli entrarono in una zona di ufficiosa informalità. Inoltre i nuovi responsabili della sicurezza e della politica estera americana, Jake Sullivan e Antony Blinken, hanno ribadito che questa Amministrazione continuerà a fornire armi a Taiwan. Blinken ha perfino fatto propria la definizione di «genocidio» che il suo predecessore Mike Pompeo aveva applicato al trattamento che la Cina infligge alla minoranza etnico-religiosa degli uiguri, i musulmani dello Xinjiang.
Il Medio Oriente è un terreno ideale per i primi test della nuova politica estera. Il verdetto: la continuità con Trump prevale sulle rotture. L’ambasciata Usa resterà a Gerusalemme, dove l’ha spostata Trump. La diplomazia di Biden ha raffreddato ogni attesa di un rapido ritorno all’accordo con l’Iran sul nucleare. Ha approvato gli accordi di pace Abramo sponsorizzati da Trump fra Israele e gli Emirati. Perfino la decisione di sospendere alcune vendite di armi all’Arabia saudita e agli Emirati è stata ridimensionata dal Dipartimento di Stato che la spiega così: «Routine, atto dovuto, normale riesame dei dossier come avviene ogni volta che c’è un’alternanza di Governo». Niente strappi e tanta cautela. Forse perché il Medio Oriente – con la Cina – è uno dei terreni sui quali la politica estera di Trump non è stata condannata in toto dai democratici. Biden si trova in sintonia anche sui ritiri di truppe da Afghanistan, Iraq e Somalia, decisi o annunciati dal suo predecessore. Quando era il vice di Obama, Biden fu tra i più tenaci oppositori di quell’impeto con cui il Pentagono aumentò la presenza militare in Afghanistan.
L’Iran è un dossier caldo su cui Biden vuole procedere con la massima prudenza. «Il presidente è stato chiaro – dice Blinken – se l’Iran torna a rispettare i suoi impegni e i suoi obblighi in base all’accordo, gli Stati uniti faranno lo stesso». Il nuovo segretario di Stato non ha esitazioni ad accusare Teheran di «non stare ai patti», in particolare dopo la ripresa dell’arricchimento dell’uranio. Ma perfino qualora gli iraniani dovessero fermare l’arricchimento di uranio, consentendo a Washington di ritornare in quell’accordo, Blinken spiega che si tratta di «usarlo come una piattaforma per migliorarlo insieme ai nostri alleati». Ci sono questioni non contemplate dall’accordo nucleare – il programma iraniano di riarmo missilistico, l’appoggio alle attività terroristiche in altri Paesi come Libano e Siria – su cui Biden e Blinken vogliono costringere Teheran a nuove concessioni, tenendo conto di critiche espresse da Israele e anche dalla Francia oltre che da Trump.
Le verità di Kamala Harris in italiano
Anche i lettori di lingua italiana hanno ora la possibilità di leggere «Le nostre verità» (La nave di Teseo editore), il libro in cui Kamala Harris – la prima vicepresidente donna e di colore – racconta sé stessa. Pubblicato negli Stati Uniti nel 2019, prima ancora che l’autrice annunciasse la sua candidatura alla nomination democratica, è un misto di autobiografia, analisi politica e programma di governo. Nel libro Harris si sofferma sulle sue origini etniche e sul profondo legame che la lega alla madre Shyamala Gopalan, nata nell’India meridionale in una famiglia privilegiata, nella casta elitaria dei bramini tamil. All’età di 19 anni Shyamala ha già una laurea e nel 1958 si iscrive all’università di Berkeley, in California, dove consegue un dottorato in endocrinologia. In seguito si dedica alla ricerca oncologica. Mentre il padre, nero giamaicano, è un celebre economista che ha insegnato prima a Berkeley e poi a Stanford. Due vite che sembrano realizzate nel segno del «sogno americano». E Kamala non è da meno. Nata nel 1964 nella città californiana di Oakland, studia alla Howard University di Washington e all’Hastings College of the Law di San Francisco. Nel 2003 diventa procuratrice capo della città di San Francisco e nel 2010 assume la guida del sistema giudiziario dell’intera California. Senatrice democratica dal 2016, nel 2020 è scelta da Joe Biden come vice, nonostante l’attacco che lei gli aveva sferrato durante uno dei primi dibattiti televisivi per la nomination democratica, accusandolo di razzismo. E Kamala si è rivelata una scelta vincente che lancia un ponte verso le nuove generazioni, le donne e le minoranze etniche. Una donna grintosa, piena di qualità e ambizione, politicamente astuta e moderata. Durante l’insediamento gli occhi erano puntati su di lei più che sul presidente. È verosimile l’ipotesi per cui quest’ultimo potrebbe durare un solo mandato e lanciare Kamala per la corsa alla Casa Bianca nel 2024.
Il frenetico inizio di Biden
Il nuovo presidente detta la linea: lotta contro il cambiamento climatico, accelerazione sulle vaccinazioni, slancio protezionistico e sfida alla Cina
di Federico Rampini