Il nuovo presidente del Brasile, l’ex capitano Jair Bolsonaro (nella foto accanto), eletto con oltre il 55% dei voti al ballottaggio contro Fernando Haddad del Partito dei lavoratori, non è un outsider della politica. È sì un ex militare della destra più radicale, che ha espresso più volte nostalgia per la dittaura dei colonnelli e rammarico per il mancato assassinio di molti oppositori arrestati. Ha sì fatto il pieno dei voti dell’antipolitica, dilagata come passione rabbiosa nel Brasile dei partiti tradizionali rasi al suolo da mega-inchieste sul finanziamento illecito dei politici e la corruzione sistematica delle imprese di Stato. Ma ciò nonostante resta un politico di professione, fa il deputato (seppur in ombra e sostanzialmente nullafacente) da 28 anni.
Dall’esercito fu cacciato quasi subito per eccessi di aggressività e una questione mai chiarita sull’esplosione di una bomba nel corso di una protesta per migliorie salariali di categoria. Fatto sta che Bolsonaro, quando era ancora capitano, viveva come leader sindacale dei suoi commilitoni. Come tale riuscì a farsi eleggere deputato.
Noto più per le sue sparate violente e xenofobe che per concrete proposte elaborate. È stato spesso titolo di tg, negli ultimi anni, per frasi come quella rivolta a una deputata del Partito dei lavoratori, appellata come «impossibile da essere stuprata perché troppo brutta». Per elogio della tortura, per l’appoggio alla pena di morte, per insultare omossesuali, donne, neri.
Perché il 55% degli elettori brasiliani l’ha votato? Perché lui ha promesso ordine e la maggioranza dei brasiliani è disposto a farselo dare da un ex militare dal linguaggio violento e razzista.
Il fenomeno Bolsonaro non è solo il risultato dell’esplosione dei vecchi partiti dopo le inchieste a tappeto sul finanziamento alla politica e la corruzione, non è solo la conseguenza del terremonto della classe dirigente per via giudiziaria. È anche l’espressione della finora inconfessabile voglia di un po’ di fascismo che serpeggia da tempo nei tanti, seppur silenti, a cui non è mai andata giù del tutto quella legge per le quote riservate ai neri nelle università voluta dalla sinistra al governo, o quel 20% dei futuri posti nei concorsi pubblici da riservare a neri, o i nuovi diritti dei camerieri a domicilio previsti dalla civilissima quanto detestata legge per regolamentare il lavoro domestico (diritto a una giornata di lavoro non più lunga di otto ore, diritto alla retribuzione dello straordinario: norme rivoluzionarie nel Brasile dell’apartheid di fatto delle cameriere).
La promessa di ordine attraverso una repressione militare spiccia della delinquenza e la tolleranza totale per l’uso delle armi da fuoco garantita da Bolsonaro hanno fatto il resto. Alla maggioranza dei brasiliani oggi piace molto la frase di moda «l’unico bandito buono è il bandito morto». Piace alla maggioranza dei giovani, si deduce dalla mappatura del voto. Anche a moltissimi giovani neri. Nella Baixada fluminense, per esempio, la regione più nera e più povera dello stato di Rio de Janeiro, popolata da giovani neri e poveri, Bolsonaro ha stravinto e l’approvazione per la sua politica di mano libera alla polizia è plebiscitaria. Eppure il 77% dei minori di 24 anni ammazzati dalla polizia è anche qui composta di giovani neri poveri.
Bolsonaro è stato votato da un eterogeneo 55% di elettorato fatto da evangelici (neri e poveri in maggioranza), dalla maggior parte degli under 30 e, soprattutto, da moltissimi elettori bianchi, istruiti di ceto medio e medio alto. La mappatura del voto è chiarissima: ha vinto in tutte le regioni ricche e bianche del Brasile.
E sono loro, i bianchi brasiliani colti che si esprimono mediamente meglio di Bolsonaro e hanno studiato certo più di lui, ad aver spostato definitivamente i sondaggi in suo favore già alla fine di settembre in modo così netto da ammutolire la destra liberal e convincere quella parte di establishment ancora esitante a spalancare le porte all’ultradestra.
Sembra strano che gli abitanti della patria del lulismo, del Partito dei lavoratori al potere con tutta la sua forza simbolica nonostante l’onda di odio cresciuta via social, si siano improvvisamente ribaltati a destra? Non è successo ora. Già l’ultimo Congresso era il più a destra della storia del Brasile. Già alle penultime elezioni i sindacalisti erano spariti dagli scranni dell’Aula lasciando il posto a un’orda di militanti evangelici ed ex militari di varie provenienze.
Il nuovo Parlamento è per metà composto di debuttanti, eletti da formazioni nate da poco, sigle mai sentite prima, una trentina di partiti dalla ideologia indefinibile, ma quasi tutti di estrema destra. Un esempio per tutti: il Partito social liberale che ha candidato Bolsonaro (approdato al Psl dopo aver visto la sua candidatura rifiutata da altri a destra) nel 2014 aveva un solo deputato, oggi ne ha 52 (militari, poliziotti, un ex attore porno, un ex atleta olimpico, un’agente diventata famosa per un video in cui spara a un ladro o supposto tale). Il gruppo parlamentare principale rimane comunque quello del Partito dei lavoratori, con 56 deputati, ma non è in grado numericamente di contrastare il partito trasversale dell’ultradestra che somma i voti della famosa banda «Bibbia, vacche e pallottole» (religiosi, agrobusiness e politiche securitarie). Il partito trasversale dell’ultradestra ha grande potere d’attrazione sugli eletti con i partitini piccoli. La nuova legge elettorale impedisce l’accesso a fondi per i rimborsi alle formazioni con meno dell’1,5% dei voti o almeno 9 eletti in 9 stati distinti. Ci sono 90 deputati in questa situazione, già pronti a fare le valigie per passare nel partito del presidente.