Dopo l’ennesimo rinvio dell’accordo «fase uno» per alleviare i termini della guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, è del tutto evidente che la battaglia dei dazi continuerà a lungo. E se anche, come pare, si arriverà a un’intesa per la «fase uno», con effetti davvero minimali sugli scambi e quindi sull’economia globale, molto probabilmente la «fase due», teoricamente più sostanziosa, sarà rinviata alle calende greche. Questo anche per il caos che regna alla Casa Bianca, con Trump sotto inchiesta – la prospettiva della fine anticipata del mandato non è così astratta come pareva essere – e per i meno visibili ma altrettanto concreti tormenti che torturano la leadership cinese. Insomma, la questione è politica, molto prima che economica.
Cominciamo dalla sponda americana. Raramente si era sperimentata un’amministrazione altrettanto inefficiente dell’attuale. E quasi mai lo scontro fra i poteri interni era stato così violento come in questi mesi. Forse la Cina è uno dei rari temi su cui opinione pubblica, mondo politico e apparati condividono una visione. Quella per cui Pechino ambisce a prendere il posto degli Stati Uniti quale Numero Uno al mondo, e lo fa con mezzi fraudolenti. In primo luogo «rubando» le tecnologie di punta americane, per rivenderle magari, in versione «light» e a prezzi stracciati, sui mercati più vari.
Ma su come reagire alla minaccia cinese a Washington gli animi si dividono. In due squadre e nei loro sottoprodotti. La prima, maggioritaria, è per la durezza. La Cina va colpita a 360 gradi. Sul fronte economico, contando sul fatto che la dipendenza di Pechino dal mercato americano è assai più corposa di quella di Washington da quello cinese. Quindi la guerra dei dazi sembra destinata a concludersi, quando mai lo sarà, con una vittoria a stelle e strisce, almeno ai punti. Non basta: ciò che preoccupa gli strateghi americani è la proiezione marittima e navale cinese nell’Oceano Pacifico.
Di qui l’intesa a quattro, con India, Giappone e Australia, più alcuni paesi indocinesi, per contenere la sfera d’influenza cinese nei mari interni. A favore di Washington gioca anche la fragilità geopolitica della Cina. Xi non controlla allo stesso modo tutti i suoi territori. A parte lo specialissimo caso di Taiwan, per difendere la cui indipendenza di fatto gli Usa sarebbero costretti alla guerra in caso di attacco di Pechino all’isola, dal Xinjiang al Tibet non mancano le aree instabili. E l’esplosione della ribellione di piazza a Hong Kong sta seriamente danneggiando la reputazione della principale porta d’ingresso degli investimenti esteri in Cina.
Veniamo al fronte cinese. I problemi principali che occupano in questi mesi Xi Jinping e la sua cerchia sono tre. In ordine di importanza.
Primo: le diverse province cinesi tendono sempre più all’introversione e paiono refrattarie alle direttive del centro. È una storia antica, ma ogni tanto il potere imperiale – perché tale è quello di Xi – viene contestato nelle periferie. Per evitare che questo si rifletta sul centro, la leadership comunista sta cercando di accorciare la briglia ai potentati locali. Non sarà facile.
Secondo: il progetto delle vie della seta (Bri) si sta rivelando più complesso e meno gestibile del previsto. In ambito domestico, le rivalità fra le varie province ne stanno minando la coerenza. Anche perché tanti investimenti all’estero non corrispondono ad analogo impegno finanziario sul fronte interno. Le critiche crescono di intensità, a partire dalle regioni del Nord-Ovest, Xinjiang in testa, che speravano di profittare della Bri per ridurre il gap di ricchezza e di benessere che le divide dalle coste e dalle regioni orientali e meridionali.
Terzo: la nomenklatura ha di fatto bloccato l’ambizione di Xi di privatizzare almeno in parte le grandi industrie di Stato, epicentro della corruzione e dell’inefficienza che colpisce alcuni gangli vitali del sistema. In assenza di questo risultato, il mandato dell’imperatore in carica può essere messo in discussione.
La somma algebrica delle difficoltà e delle intenzioni americane e cinesi sembra indicare oggi che l’ago della bilancia penda a favore degli Stati Uniti. Ma Pechino conta sul caos interno alla politica americana e sulla possibile non rielezione di Trump. Sperando, con qualche ragione, che un presidente democratico possa essere meno anti-cinese e più affidabile dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Se mai l’accordo di pace fra Cina e Stati Uniti sarà stipulato, lo vedremo quindi solo dopo l’insediamento del nuovo presidente o la permanenza dell’attuale. Almeno un anno e mezzo di ulteriore guerra commerciale è garantito.