Non era mai successo nella storia delle quotazioni del petrolio così come le conosciamo oggi, utilizzando gli strumenti derivati, iniziate nel 1983. Chi aveva un contratto «future» di acquisto di petrolio con consegna per la fine di maggio, sarebbe stato pagato circa 40 dollari per prenderlo. Insomma, i produttori avrebbero pagato gli acquirenti per ritirare i barili di petrolio. Una cosa che detta così è controintuitiva, ma di questi periodi ha un suo senso.
Il petrolio in questione è il WTI, acronimo di West Texas Intermediate, ovvero il petrolio statunitense, il quale, assieme al Brent, il greggio del Mare del Nord, è uno dei riferimenti mondiali sul mercato. E cosa sia successo il 19 aprile è presto detto.
Questo petrolio viene immagazzinato soprattutto a Cushing, una cittadina di circa 8000 abitanti nell’Oklahoma che ha più cisterne che case con una capacità di 76 milioni di barili. Ebbene, questa capacità stava per essere raggiunta: era arrivata al 72% già il 10 aprile. In condizioni normali non sarebbe stato un problema. Il petrolio entra ed esce dalle cisterne con regolarità. In condizioni normali. Ma in queste settimane di normale, nel mondo, c’era ben poco. Dalla Cina, agli Stati Uniti passando per l’Europa le attività economiche di 187 paesi si sono bloccate. E una delle prime conseguenze è stato un crollo della domanda di petrolio a livello mondiale, 30 milioni di barili in meno, ovvero il 30% della domanda giornaliera.
Dunque, in quelle settimane c’era in giro molto petrolio, che nessuno poteva usare, data la chiusura delle attività, e che nessuno sapeva dove immagazzinare visto che le capacità delle cisterne erano praticamente esaurite. E quel poco spazio che c’era, era carissimo. L’offerta superava la domanda, e di molto, anche perché non erano ancora entrati in vigore gli storici accordi sui tagli alla produzione decisi qualche giorno prima. 10 milioni di barili al giorno per i mesi di maggio e giugno, che passeranno a 8 milioni in luglio. E poi 6 milioni da gennaio 2021. Tagli decisi dai paesi OPEC più la Russia. Seguiti poi anche da altri, Stati Uniti in primis, che si sono detti d’accordo a ridurre la produzione. Una mossa che però non è servita a frenare il crollo.
Ecco quindi che man mano che si avvicinava la scadenza del contratto per le forniture di maggio di WTI, il prezzo scendeva sempre di più, fino, come detto, ad arrivare alla storica quotazione negativa. Costava meno pagare per farsi portar via i barili, che tenerli a costi altissimi.
Quanto successo il mese di aprile è stato più unico che raro. Oggi le quotazioni del contratto di luglio, il prossimo in scadenza, si aggirano attorno ai 35 dollari, segno che la domanda cresce. La Cina ha ripreso a funzionare, così come buona parte dell’Europa. E anche gli Stati Uniti lo faranno presto. Perlomeno dal punto di vista del mercato, la normalità è stata ripristinata, anche se gli analisti rimangono prudenti. C’è molto oro nero nei depositi, e anche con una ripresa in corso ci vorrà del tempo affinché venga utilizzato tutto e si torni ai livelli pre-covid. Quindi ci si attende una certa immobilità dei prezzi per qualche mese.
Secondo Avenergy Suisse, l’associazione che rappresenta gli importatori di combustibili liquidi in Svizzera, si stima che dopo il calo della domanda di 30 milioni di barili di aprile, per maggio si arriverà ad un meno 21 milioni e a giugno meno 13 milioni. Come si vede la ripresa sarà lenta.
Ma quali sono le conseguenze pratiche di quel fatto così straordinario successo ad aprile? Molti penseranno che anche i prezzi della benzina sarebbero potuti scendere a livelli bassissimi. Certo, la logica direbbe ciò e qualche piccolo vantaggio al distributore lo si potrà vedere, ma nulla di eclatante. Come detto il WTI è solo uno dei «petroli» in circolazione. Il Brent ad esempio, quello del Mare del Nord, non ha subito gli stessi scossoni. Come mai? Semplice, il Brent viene stoccato nelle petroliere, mentre il WTI non ha sbocchi sul mare e deve essere portato a Cushing o nelle raffinerie.
Un’altra conseguenza pratica del crollo del prezzo del petrolio, in generale non solo riferito al WTI, è il rischio fallimento di molte aziende estrattrici statunitensi. Visti gli alti costi d’estrazione, per molte di queste società un prezzo di 30 dollari al barile è già molto difficoltoso da sostenere. Si stima che le principali compagnie perderanno 26 miliardi di dollari nel primo trimestre e ci si attende un’ondata di fallimenti nei prossimi due anni. Fallimenti che toccheranno anche molti risparmiatori. Infatti, queste compagnie sono molto indebitate e difficilmente riusciranno a onorare gli 86 miliardi di dollari di obbligazioni in scadenza.
Il petrolio dunque continua ad essere al centro dell’attenzione. Probabilmente si tratta della materia prima più condizionabile da fattori esogeni che superano il semplice meccanismo della domanda e dell’offerta. Le tensioni internazionali giocano un ruolo fondamentale e il petrolio diventa un’arma micidiale contro quei paesi che ne fanno una, se non l’unica, risorsa economica. Un aumento o una diminuzione del prezzo, indotta da manovre politiche può mettere in ginocchio intere nazioni. Ed è paradossale che questo bene così prezioso provenga proprio da zone del mondo molto instabili. Senza contare la sempre più crescente avversione ai combustibili fossili, che ne potrebbe condizionare il prezzo in futuro.
Elementi teorici, forse, ma il fatto che l’Arabia Saudita, il secondo maggior produttore mondiale dopo gli Stati Uniti, stia tentando di riconvertire la sua economia, rendendola meno dipendente dal greggio, è un segnale che probabilmente l’era del petrolio, così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, non durerà per molto.