Le Borse cinesi chiuderanno il 2020 all’insegna del trionfo, con rialzi medi attorno al 40%. È la consacrazione di un successo generale, la forte ripresa dell’economia cinese: sarà l’unica tra le grandi a finire l’anno con un segno più davanti al Pil. E alcuni scenari anticipano ormai il sorpasso Cina-Usa al 2028, cinque anni prima del previsto. L’effetto-Covid è ben visibile anche nel resto dell’Asia, o meglio nelle due regioni più collegate all’economia cinese: Estremo Oriente e Sud-est asiatico, anch’esse in netta ripresa. La pandemia non ha fatto che accelerare un trend pre-esistente che ci porta al «secolo asiatico». La prova: perfino il sorpasso dell’India sulla Germania è inevitabile, malgrado tutti i problemi che rallentano lo sviluppo indiano.
Prima della fine di questo decennio avremo tre big asiatici contro due occidentali nei primi cinque posti mondiali per la dimensione del Pil. Al primo posto la Cina, seguita da Stati Uniti, poi Giappone e India, seguite dalla Germania. Corollario non irrilevante, la Cina consolida anche la sua posizione come prima potenza generatrice di emissioni carboniche. Non aiuta a capire il ruolo della Cina la superficialità con cui i media occidentali avallano la retorica «ambientalista» di Xi Jinping. La Cina proclama che le ridurrà in un futuro distante ma intanto continua ad aumentare le proprie emissioni carboniche; il suo impatto sul cambiamento climatico è quasi il doppio rispetto agli Stati Uniti; inoltre il suo impatto carbonico continua a crescere mentre quello americano diminuisce. Oggi la Cina genera il 28% delle emissioni mondiali di CO2 contro il 15% per gli Stati Uniti.
L’impronta ambientale cinese inoltre non tiene conto del fatto che la Cina continua a costruire centrali elettriche a carbone lungo le Vie della Seta, cioè nell’ambito della sua Belt and Road Initiative. L’impatto carbonico della Cina dovrebbe quindi includere le centrali a carbone che ha costruito, sta costruendo e costruirà nel resto dell’Asia e in Africa. Un’ulteriore divaricazione tra la Cina e l’Occidente deriva dai lockdown: la Cina ha ripreso a crescere e ad aumentare l’inquinamento mentre l’Occidente attraversa una recessione che abbatte le emissioni di CO2.
Ma c’è un colosso dell’economia cinese che in questo momento fa notizia in negativo. Un titolo importante che si è sganciato dall’euforìa delle Borse cinesi, è quello di Alibaba. La regina del commercio online cinese (e di tanti altri business digitali) ha cancellato in poche settimane quasi tutti i rialzi dell’anno. La ragione è l’assalto del governo di Pechino contro l’impero fondato da Jack Ma. È un’offensiva condotta su più fronti. C’è la procedura antitrust, che accusa Alibaba di abuso monopolistico anche ai danni dei tanti piccoli venditori costretti a usare la sua piattaforma. C’è stata la battuta d’arresto per la quotazione in Borsa di Ant, la filiale che gestisce i sistemi di pagamento digitale attraverso Alipay ed ora deve vedersela con le autorità monetarie che l’accusano di essere una banca senza però assoggettarsi alla vigilanza bancaria. Da ultimo la banca centrale cinese sperimenta la sua moneta digitale, mettendosi in concorrenza diretta con Alipay. Questi ed altri attacchi contro Alibaba hanno delle basi legittime, però sono stati scatenati dal fatto che Jack Ma ha osato criticare il suo governo.
Xi Jinping non perdona al miliardario più ricco del suo Paese di essersi montato la testa. Questo ricorda uno dei caratteri distintivi del capitalismo cinese: il primato della politica. Anche Donald Trump ebbe molte ragioni per voler danneggiare Jeff Bezos, il numero uno di Amazon. Tentò di piegare le poste federali – un’azienda sotto il controllo del governo – perché smettessero di lavorare per Amazon. Non riuscì né in questa né in altre offensive, Amazon chiude un 2020 eccezionale. Questa storia divergente, fra Alibaba e Amazon, è un monito per tutti gli imprenditori: la Cina funziona in base a regole diverse, il suo immenso mercato ha tante attrattive ma tra queste non figura la certezza del diritto. Di che far riflettere quegli imprenditori europei che nel 2021 prevedono un mercato cinese più aperto e meno discriminatorio nei loro confronti?
Infatti ha superato una tappa decisiva la nuova intesa bilaterale sugli investimenti Ue-Cina. Si tratta di quel Comprehensive Agreement on Investment i cui negoziati si trascinano dal 2014, ma hanno conosciuto un’accelerazione improvvisa sotto la presidenza tedesca dell’Unione europea e in vista dell’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca.
Il discorso ufficiale da Bruxelles esalta le ricadute benefiche per le imprese del Vecchio Continente, in particolare l’accesso più libero che otterranno per investire in diversi settori manifatturieri, più il trasporto aereo, l’edilizia, le telecom, la pubblicità. Le imprese cinesi dal canto loro ottengono maggiore accesso nel settore dell’energia in Europa. Dagli Stati Uniti, pur nella transizione dei poteri, traspare malumore.
A lanciare un avvertimento forte agli europei per conto di Biden era stato Jake Sullivan: colui che nella «nuova» Casa Bianca occuperà l’incarico strategico di National Security Adviser. Da Sullivan dipenderà la cabina di regìa dove si elaborano politica estera e militare degli Stati Uniti, con una supervisione su quei terreni del commercio e degli investimenti internazionali che sono rilevanti per la sicurezza. Sullivan prima di Natale aveva twittato agli europei questo altolà: «L’Amministrazione Biden-Harris accoglierebbe volentieri delle consultazioni preliminari con gli europei sulle nostre comuni preoccupazioni riguardo ai comportamenti economici della Cina». Cortese ma fermo avvertimento, quel messaggio di Sullivan conferma una continuità da Trump a Biden: l’imminente cambio della guardia a Washington non significa che cesserà l’allarme nei confronti dell’ascesa cinese.
Ma in Europa ha prevalso la linea della Germania, che è la più filo-cinese: l’industria tedesca, pur preoccupata dal «piano 2025» con cui Xi Jinping punta a insidiarla in tutte le tecnologie avanzate, continua comunque ad essere la massima beneficiaria dell’accesso al mercato cinese. Angela Merkel ha la presidenza di turno dell’Ue, Ursula von der Leyen è presidente della Commissione. Secondo loro il Comprehensive Agreement on Investment sarebbe segnato da concessioni sostanziali di Xi Jinping.
Gli europei considerano come vittorie l’aver ottenuto che le loro imprese non saranno più costrette a trasferire know how tecnologico a soci cinesi per investire su quel mercato, una delle regole-capestro con cui il furto di proprietà intellettuale è stato sistematico per decenni (in diversi settori definiti strategici l’investitore straniero era costretto ad agire in joint venture con un socio cinese, consentendo a quest’ultimo ampio accesso alle proprie tecnologie). Pechino avrebbe promesso anche trasparenza sugli aiuti di Stato alle proprie aziende.
Ultimo punto dirimente, una condizione sulla quale ha insistito soprattutto la Francia: l’accordo non verrà ratificato fino a quando la Cina non sottoscrive le regole dell’International Labor Office contro lo sfruttamento di manodopera nei lavori forzati e sulla libertà di organizzazione sindacale (che poi quelle regole le rispetti, è un’altra questione). Le concessioni agli europei, a Bruxelles vengono interpretate come un tentativo di Xi di accelerare i tempi pur di prevenire la saldatura di un fronte tra la nuova Amministrazione Biden e l’Europa. All’accordo di principio mancano però centinaia di pagine di testi legali, la vera sostanza del nuovo regime.
Poi c’è il passaggio al Consiglio europeo e all’Europarlamento. La ratifica finale da parte dell’Unione europea dunque non avverrà prima del secondo semestre 2021. E l’approvazione da parte dell’Europarlamento non si può dare per scontata. Biden e Sullivan torneranno alla carica dal 20 gennaio. Sullivan ha redatto un documento che aggiorna e adatta con toni di sinistra il nazionalismo economico di Trump. S’intitola Making U.S. Foreign Policy Work Better for the Middle Class, e il futuro National Security Adviser lo ha pubblicato insieme con altri esperti democratici, presso il Carnegie Endowment for International Peace. Anticipa la strategia di Biden: la priorità rimane ricostruire l’economia americana, rivedendo in modo drastico il liberismo commerciale dell’era di Clinton, Bush, Obama.
Un altro terreno su cui Biden promette di essere perfino più duro nei confronti di Pechino è quello dei diritti umani. Tibet, Xinjiang, Hong Kong, da ultimo l’arresto della giornalista Zhang Zhan rea di aver raccontato verità scomode sulla pandemia dal focolaio originario di Wuhan: le occasioni per criticare la Cina non mancano. Ma Xi Jinping ha già reagito a muso duro con gli europei quando hanno osato sollevare questi temi: il presidente cinese ha ricordato i profughi morti nelle traversate del Mediterraneo, il rigurgito di antisemitismo e di neonazismo in Europa, il razzismo denunciato da Black Lives Matter, concludendo che ognuno deve guardare in casa propria.
Circola voce a Washington che Joe Biden potrebbe nominare come ambasciatore in Cina il chief executive della Disney, Robert Iger. Sarebbe un gesto molto distensivo verso Xi Jinping. Anche troppo. Iger è nelle grazie di Xi Jinping perché si è piegato all’ortodossia del regime pur di conquistare il pubblico cinese con il film Mulan. Alcune scene di quel film sono state girate nello Xinjiang, dove un milione di uiguri musulmani sono detenuti in campi di rieducazione. La Disney ha sconfessato pubblicamente un film sul Dalai Lama che produsse anni fa. La nomina di Iger sarebbe un segnale contraddittorio; oppure il gesto machiavellico di mandare un amico dei cinesi a trasmettergli messaggi sgraditi?