«Devo fare in una generazione quello che gli altri hanno fatto in tre». È stato lo slogan con cui l’ottantaquattrenne Carlo De Benedetti ha attraversato un’esistenza densa di colpi di scena, di scalate finanziarie, di una diversità imprenditoriale più declamata che praticata. È servito anche per giustificare qualche inciampo giudiziario, qualche scalata azionaria finita male come quella, nell’88, alla Societé Generale de Belgique, dove si era presentato affermando: «Sono venuto a suonare la fine della ricreazione». Finì che, invece, suonarono lui. De Benedetti e il fratello maggiore Carlo, scrittore, politico e pure sua ombra fedele, sono figli di un piccolo industriale, Rodolfo, ebreo sefardita. Nella Torino fra le due guerre aveva raggiunto la consacrazione sociale acquisendo dal senatore Giovanni Agnelli, il padrone della Fiat, un appartamento assai elitario nell’attuale corso Matteotti, il cuore della città. E di Umberto Agnelli, il piccolino fra i nipoti del senatore, Carlo fu compagno di classe dalla terza media al quinto ginnasio, al ritorno dall’esilio in Svizzera per sfuggire alle persecuzioni razziali. La conoscenza con Umberto gli garantì anche l’appoggio del fratello Gianni per essere nominato nel ’76 amministratore delegato della Fiat.
L’automobile era alle viste della prima crisi, De Benedetti aveva trasformato un’anonima società immobiliare, la Gilardini, in una holding di successo e inoltre vantava un buon rapporto con i comunisti: ai fratelli Agnelli era sembrata la scelta giusta per rilanciare la Fiat. Ma dopo appena quattro mesi De Benedetti lasciò con una congrua buonuscita: da allora una ridda d’ipotesi, compresa la sua origine giudaica al tempo dell’ingresso nell’azionariato della Libia del musulmano Gheddafi. Recentemente De Benedetti ha sostenuto che il divorzio fu causato dal rifiuto di Gianni Agnelli di procedere alla drastica riduzione del personale poi avvenuta sotto la guida di Romiti.
Da quella defenestrazione è cominciata una storia di successo: dalla Cir e dalla Cofide, le finanziarie di famiglia, all’Olivetti; dalla geniale intuizione della Omnitel, l’attuale Vodafone, all’ingresso nell’area della stampa. E pure le veloci incursioni nel Banco Ambrosiano, nella Montedison, nella Yves Saint Laurent, nella Valeo, nella Sme (la holding statale dell’agro-alimentare), benché non baciate dal successo, gli sono valsi cospicui guadagni e la fama, immeritata, di cavaliere bianco in lotta contro i mulini a vento del potere centrale. La mossa vincente è stata l’acquisizione dell’«Espresso» e di «Repubblica», alla cui fondazione, nel ’76, aveva partecipato con un finanziamento irrisorio di 50 milioni di lire (circa 260 mila euro), per altro dell’Unione industriale di Torino. I due giornali gli sono giunti dalla lunghissima lite, personale e giudiziaria, con Silvio Berlusconi per il possesso della Mondadori. L’intervento del potentissimo democristiano Andreotti li aveva costretti nel ’91 ad accettare la spartizione del gruppo editoriale. Tuttavia un’inchiesta accertò che la sentenza del tribunale di Roma, in virtù della quale De Benedetti aveva dovuto accogliere la transazione, era stata comprata per 400 milioni di lire (circa 350 mila euro) dalla Fininvest di Berlusconi. Al massone in sonno De Benedetti l’ingarbugliata vicenda ha fruttato la patente di eroe della sinistra, d’irriducibile avversario dell’uomo nero Silvio, tranne accordarsi per creare un fondo speculativo, e soprattutto 540 milioni di euro di risarcimento nel 2011.
Messo al sicuro il portafoglio suo, dei figli Rodolfo e Marco, cooptati nelle intraprese, di Edoardo, medico in Svizzera, dei nipoti e della loro prole, De Benedetti ha si è auto insignito del ruolo di padre nobile del progressismo italiano, la tessera numero uno di qualsiasi movimento, partito, raggruppamento si formasse in quell’area. Negli anni si è specializzato nell’infrangere gli idoli, che aveva contribuito a creare: Rutelli, Veltroni, D’Alema, Bersani, Renzi. E quasi nessuno ha osato replicare temendo di suscitare l’irritazione delle sue corazzate mediatiche. Gli unici attacchi – con l’imputazione di pagare le tasse, in misura assai esigua, in Svizzera e di portare al fallimento le proprie aziende – sono giunti dai fogli berlusconiani e sono stati giudicati un’altra medaglia al valore ideologico.
A rovesciare il tavolo ha provveduto da solo. Con un’impennata, che ha sorpreso il suo stesso giro, qualcuno l’ha definita senile, se l’è presa con Rodolfo e con Marco – ai quali aveva ceduto nel 2012 le leve del comando – per la riforma grafica di «Repubblica» e per l’assetto direzionale. E soprattutto ha bastonato Eugenio Scalfari il fondatore e demiurgo del giornale. Sopravvissuto in discreta forma fino a 94 anni, Scalfari ha da un lustro scelto per sé il ruolo d’interlocutore privilegiato della Patria e del Papa. Incurante di simile prestigio, De Benedetti l’ha accusato, alla vigilia delle elezioni dello scorso marzo, di aver disorientato il pubblico di «Repubblica» avendo affermato di preferire Berlusconi a Di Maio.
Ne è venuta fuori una polemica assai ruvida, che ha cancellato un sodalizio di quasi mezzo secolo, nel quale l’uno era sempre stato il compare dell’altro. Scalfari ha affermato che in vista dei 100 anni non può curarsi delle voci erranti nel deserto. De Benedetti gli ha dato del rimbecillito e dell’ingrato avendo dimenticato i circa 70 milioni di euro incassati per cedere la sua quota nella società editoriale. L’imperversare degli addebiti e degli improperi ha coinvolto pure il direttore di «Repubblica» Mario Calabresi, definito un don Abbondio, il sacerdote dei Promessi Sposi di Manzoni, che non brillava per coraggio.