Il caro-petrolio di nuovo fra noi

Scenari – Il rincaro dei prezzi energetici era incominciato già prima della decisione di Trump di ritirare gli Usa dall’accordo sul nucleare iraniano. E intanto sul Venezuela scattano nuove sanzioni americane
/ 28.05.2018
di Federico Rampini

Con la rielezione di Maduro scattano subito nuove sanzioni americane sul Venezuela. Unite con quelle che l’Amministrazione Trump ha appena reintrodotto sull’Iran, spiegano almeno in parte il nuovo rischio di shock energetico. Il caro-petrolio è tornato in mezzo a noi. Penalizza i consumatori occidentali. Mette in difficoltà grosse economie emergenti come l’India. Ricostruisce ricchezze altrove: dall’Arabia Saudita (che può finalmente ridurre il proprio altissimo deficit pubblico, 12% del Pil) alla Russia di Vladimir Putin. Il greggio di tipo Brent, uno dei più seguiti come indicatore dei prezzi mondiali, naviga attorno a quota 78 dollari, con punte a 80 dollari. Per dare un’idea delle oscillazioni estreme – alle quali contribuisce poderosamente la speculazione finanziaria sui futures – si può ricordare che nell’arco dell’ultimo quindicennio da prima della crisi del 2007 questa materia prima ha toccato prezzi record di 150 dollari e minimi di 50 dollari.

Alla congiuntura attuale contribuiscono le sanzioni americane: quelle sull’Iran, appena reintrodotte, potrebbero togliere dal mercato da 400’000 a un milione di barili al giorno, sul totale dei 2,4 milioni di barili che l’Iran è tornato a produrre. Con la parziale levata delle sanzioni decisa da Barack Obama, l’Iran si era riportato al terzo posto fra i produttori Opec. Il ripristino delle sanzioni contro Teheran annunciato da Donald Trump è al centro di una controversia internazionale. I paesi europei, di cui tre sono firmatari dell’accordo nucleare (Germania Francia Inghilterra), ribadiscono la loro fedeltà a quell’accordo e vorrebbero neutralizzare le sanzioni Usa. Cina e Russia sono sulla stessa linea. Il governo Rouhani vorrebbe assecondarli. 

Ma è molto difficile sfuggire alla «extraterritorialità» delle sanzioni Usa: le multinazionali sono di fronte all’alternativa impossibile di rinunciare a operare con gli Stati Uniti, se vogliono fare affari con l’Iran. Emblematico è il caso della Total, multinazionale petrolifera francese: ha già detto che dovrà abbandonare l’Iran se non ottiene una deroga speciale da Washington. È tornato a ribadire la linea dura il segretario di Stato Mike Pompeo: «Le sanzioni non cesseranno finché non vediamo cambiamenti tangibili nelle politiche di Teheran, incluso il ritiro delle forze iraniane dalla Siria, la fine del sostegno a Hezbollah in Libano e agli Huthi nello Yemen, la cessazione delle minacce di distruggere Israele».

Ma questo rincaro dei prezzi energetici era cominciato già prima della decisione di Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano. Se si guarda alla varietà di greggio chiamata West Texas Intermediate, il rincaro è del 50% dall’agosto scorso. Una fiammata così ha per forza diverse concause. Al primo posto c’è la robusta crescita globale. Anche se alcuni paesi emergenti cominciano a dare segni inquietanti di dissesto finanziario (Argentina, Turchia), non si è fermata né ha rallentato la sua crescita la coppia trainante del gruppo: Cina e India. La Cina continua a crescere del 6,8% annuo, tallonata e a tratti superata dall’India: messe insieme sono di gran lunga la maggiore fonte di domanda petrolifera nel mondo. Un secondo fattore è la ritrovata disciplina dell’Opec: il cartello petrolifero ha concordato con produttori non-Opec dei tagli di produzione di 1,2 milioni di barili al giorno; la decisione fu presa nel 2016 ed è stata rispettata, contribuendo al rincaro. Al terzo posto ci sono i rischi geopolitici in Medio Oriente, che includono la possibilità di un conflitto ravvicinato tra Iran e Israele o tra Iran e Arabia Saudita. Infine c’è un fattore ciclico negli investimenti: il lungo periodo precedente di basso prezzo del petrolio ha spinto le multinazionali del settore a congelare diversi progetti di estrazione o altri investimenti in infrastrutture, e questo provoca delle strozzature dal lato dell’offerta.

Il caro-petrolio a sua volta ha una ricaduta sui tassi d’interesse: tendono a rispondere alle aspettative di inflazione. A cominciare da quelli americani. Con i Treasury Bond decennali oltre il 3% di rendimento, il debito pubblico Usa frutta più di quello di molte nazioni europee. E il dollaro si rafforza. Ma questo sta mettendo in difficoltà molte economie emergenti altamente indebitate in dollari: i possibili focolai di nuove crisi.

Questi sono due temi da approfondire: in che misura il caro-petrolio e la possibile deriva verso uno shock energetico è «manovrato»; quanto può far male alla stabilità il mix di dollaro forte, rialzi nei tassi, e rincaro nelle materie prime.

Le dietrologie sul petrolio possono chiamare in causa il ruolo dell’America, che negli ultimi anni si era issata in testa alle nazioni produttrici di energia, grazie a una rivoluzione tecnologica: l’avvento del fracking (un nuovo metodo di estrazione che usa potenti getti di acqua e solventi chimici) nonché della trivellazione orizzontale. Questi metodi hanno reso redditizi giacimenti che un tempo non lo erano, sia per il petrolio che per il gas naturale e le rocce o sabbie bituminose. A tratti l’America ha superato la produzione di gas naturale della Russia e si è avvicinata all’Arabia Saudita per la capacità di estrazione di greggio. Tant’è che gli Stati Uniti da anni hanno smesso di importare dal Medio Oriente e dal Golfo Persico (una novità inaudita, che contribuisce a spiegare anche una tentazione di disimpegno strategico rispetto ai conflitti del mondo arabo). Se vi si aggiungono lo shale gas del Canada e le nuove scoperte in Brasile, il baricentro energetico del pianeta si è riequilibrato, con un ruolo molto più importante delle Americhe. Di qui la tendenza a spiegare l’attuale rincaro del petrolio come una «manovra» americana per restituire competitività ai propri piccoli produttori, molti dei quali avevano fatto bancarotta o erano appesantiti dai debiti quando il greggio era sceso ai minimi. 

Ma il settore petrolifero americano ha caratteristiche molto particolari, ben diverse dal Medio Oriente. Negli Usa il settore è in mano al libero mercato con una miriade di soggetti; altrove nel mondo ci sono grandi aziende pubbliche. Inoltre all’interno dell’economia Usa non mancano i perdenti, quando il costo dell’energia risale. La compagnia aerea American Air-lines (nel trasporto il primo costo che incide sui bilancio è quello dell’energia) ha perso il 15% del suo valore di Borsa in un solo trimestre. Dagli automobilisti che pagano la benzina il 25% in più rispetto a un anno fa, fino alle compagnie di navigazione o ai colossi della logistica come FedEx e Ups, tanti preferivano un greggio a 50 dollari il barile. Un ruolo più importante nelle dietrologie sul caro-petrolio, lo svolge senza dubbio l’intesa che ha funzionato per i tagli di produzione fra l’Opec (Arabia Saudita in testa) e la Russia. Poi naturalmente sono intervenute le sanzioni con un ulteriore taglio alla produzione.

La forza del dollaro accentua il rincaro energetico visto che le materie prime vengono quotate e scambiate nella valuta americana. Per molti anni – dalla fine del 2008 all’anno scorso – sul livello del dollaro ha inciso pesantemente l’effetto del «quantitative easing», cioè la politica della Federal Reserve studiata per sostenere l’uscita dalla crisi: complessivamente la banca centrale Usa ha acquistato 4500 miliardi di titoli. Questo ha depresso i tassi d’interesse ed ha avuto un effetto molto simile all’azione di «stampar moneta». Una sovrabbondanza di dollari e quindi i bassi costi per chi si finanziava in questa valuta, hanno incoraggiato l’indebitamento a tutti i livelli, pubblici e privati.

All’interno degli Stati Uniti si è riaffacciato il vecchio vizio di una ripresa economica finanziata coi debiti dei consumatori. Ma ancora più destabilizzante è stato il fenomeno internazionale: nel mondo intero governi e imprese si sono indebitati in dollari, perché la liquidità abbondava e i tassi d’interesse erano convenienti. Anche senza considerare le banche americane, secondo una stima del Fondo monetario internazionale dal 2000 ad oggi i prestiti in dollari emessi da banche del resto del mondo sono passati da un totale di 4000 miliardi al livello odierno di 14’000 miliardi.

Poi è intervenuta la «cura Trump»: un mix di aumenti di spese federali (soprattutto nel settore della difesa) e di tagli alle tasse. La riforma fiscale varata dal Congresso a maggioranza repubblicana sul finire del 2017 ha ridotto il prelievo soprattutto sulle imprese, in parte minore anche sulle persone fisiche. Il risultato è scontato: secondo il Congressional Budget Office (un organismo indipendente) il deficit della finanza pubblica a livello federale salirà dai 665 miliardi dell’anno scorso ad 800 miliardi entro la fine di quest’anno. Un così forte aumento del deficit pubblico significa per forza un boom nell’emissione di Buoni del Tesoro, e per piazzarli Washington deve offrire rendimenti più alti. I mercati scommettono su questo scenario e stanno già sospingendo al rialzo i rendimenti. 

Dai Treasury Bond decennali ormai sopra il 3%, questo aumento dei tassi si trasmette ad ogni bond e ad ogni forma di prestito. Lo shock di un dollaro forte e di tassi in rialzo è duro soprattutto per chi non guadagna in dollari: le imprese non-americane e gli Stati esteri che si sono indebitati in dollari all’epoca del credito facile sono i più vulnerabili. Ora devono ripagare i propri debiti in dollari sempre più pesanti, e con tassi in ascesa, mentre le loro entrate sono in valute deboli. In altri tempi questo fu il detonatore di crisi che cominciarono dalla periferia. Argentina, Turchia e Sud Africa, sono appunto tra gli anelli deboli che cominciano a far tremare i mercati.