«Il caos nei Balcani dimostra le nostre difficoltà»

Dalle stragi di innocenti avvenute in Serbia al processo di integrazione europea. Intervista all’esperta Luisa Chiodi
/ 15.05.2023
di Romina Borla

Stragi «all’americana» per mano di giovani killer armati fino ai denti, a inizio maggio, hanno riportato bruscamente la nostra attenzione sui Balcani. La prima si è consumata in una scuola elementare di Belgrado; la seconda nei dintorni di tre villaggi a sud della capitale serba. Bilancio complessivo: 17 morti e una ventina di feriti. Queste tragedie hanno suscitato sentimenti di sgomento, incredulità e tristezza, come sottolineato da Massimo Moratti dell’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (OBCT). Oltre a diversi tentativi di emulazione. «In Serbia – ma non solo – la questione delle armi è problematica. Il loro possesso resta molto diffuso. Non dimentichiamo che i conflitti degli anni Novanta sono vicini… E nel Paese regna una cultura improntata all’aggressività, al machismo. La Serbia viene ancora presentata da una certa parte politica come circondata da nemici. Mentre i media favoriscono la spettacolarizzazione della violenza: criminali comuni e di guerra compaiono spesso in tv, nei talk show». Ecco tratteggiato il fragile contesto in cui si inseriscono le stragi.

«Questo tipo di attacchi sono una novità nell’area», dice dal canto suo Luisa Chiodi, direttrice scientifica dell’OBCT. «Finora i timori che riguardavano i Balcani erano di natura diversa: si temevano secessioni, nuovi conflitti e, quando si consumava una violenza, di solito era organizzata politicamente. Non si trattava di violenza per così dire privata». Nella regione, infatti, le tensioni politiche non si sono mai sopite. Le conseguenze di lungo periodo delle guerre degli anni Novanta si fanno ancora sentire e le culture politiche che hanno generato quei conflitti sono purtroppo ancora in sella.

I casi più eclatanti – spiega l’intervistata – sono dati dalla Bosnia-Erzegovina, che rimane uno «Stato non funzionale», e dal contenzioso tra Serbia e Kosovo. Per quel che riguarda la Bosnia-Erzegovina: si è arrivati alla pace con un accordo internazionale siglato grazie all’intervento degli USA. L’Accordo di Dayton (1995) ha messo fine ad un conflitto durato quattro anni che ha causato la morte di 100 mila persone, «facendo però sedere al tavolo delle trattative coloro che la guerra l’avevano voluta e condotta». Sono state create due entità interne allo Stato: la Federazione croato-musulmana e la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (Srpska); il periodo post bellico è stato un continuo tentativo di mediazione tra le parti. «Inoltre l’Accordo di Dayton, fattosi Costituzione, ha fatto sì tacere le armi ma non rappresenta un insieme di istituzioni che rendono funzionante il sistema. La Bosnia-Erzegovina resta un Paese con tanti livelli di governo che si ostracizzano tra loro, dove una delle componenti – la Srpska – minaccia sistematicamente la secessione. Un’eventualità inaccettabile, specie se si pensa che in quella Repubblica si è prodotto il genocidio della popolazione di religione musulmana (che oggi chiamiamo bosgnacca)». Poi c’è il conflitto tra Serbia e Kosovo. Pristina si è dichiarata indipendente nel 2008 (la guerra era finita nel 1999) ma Belgrado continua a ritenerla una sua provincia autonoma. Tra i 27 Paesi dell’UE, 22 riconoscono il Kosovo ma ne mancano cinque che per questioni di politica interna preferiscono rimandare il riconoscimento, e anche a livello ONU solo la metà dei Paesi membri lo ha riconosciuto.

«A queste sfide bisogna aggiungere altri gravi problemi che affliggono i Balcani», ricorda Chiodi. «Economie in difficoltà segnate dalla corruzione, istituzioni deboli e Governi che prendono facilmente una piega semi-autoritaria. Senza contare la questione della migrazione sulla cosiddetta rotta balcanica: un aspetto paradossale nei rapporti UE-Balcani. È l’Unione a contribuire all’aumento dell’instabilità nella regione». Le persone in fuga da guerre e miseria entrano in Paesi UE, come la Grecia, nella speranza di riuscire a raggiungere realtà più attrattive, ad esempio la Germania e la Francia. Attraversano i Balcani e si trovano di nuovo fuori dall’UE: «A quel punto i migranti si ammassano nei campi profughi, ad esempio in Bosnia, in attesa di tentare la sorte e di passare il confine (lo chiamano the game, il gioco, ma è un gioco dove si rischia la vita). Intanto vivono in condizioni precarie, senza risorse, in un contesto politico instabile». Una situazione al limite, sempre a rischio di crisi umanitaria, come se ne sono viste negli anni scorsi.

Insomma, il grande potenziale che veniva dalla promessa di adesione all’UE – afferma la nostra interlocutrice – è fortemente limitato dal contesto locale e della difficoltà dei Paesi dei Balcani candidati nell’attuare le riforme necessarie. «Come se non bastasse, alcuni Paesi dell’Unione non facilitano il processo di integrazione dei Paesi balcanici, anzi, abusano del loro diritto a porre il veto ad ogni passo avanti. Per anni, ad esempio, la Grecia ha bloccato la Macedonia fino a che l’ha costretta a rinominarsi Macedonia del Nord; poi contro la Macedonia ci si è messa la Bulgaria, chiedendo che la minoranza bulgara – una delle tante componenti del Paese – venga menzionata esplicitamente nella Costituzione. In tutti questi anni diversi Stati UE, invece di aiutare una regione che ha bisogno di essere sostenuta per ricucire le ferite che la lacerano, hanno aggravato la situazione con giochi meschini. Questo è un problema enorme che rende evidente la debolezza istituzionale europea. Un processo decisionale affidato all’unanimità – che è appunto necessaria affinché questi processi abbiano buon fine – non è più sostenibile».

Con lo scoppio della crisi ucraina, comunque, qualcosa è cambiato. «La nuova stagione nelle relazioni internazionali apertasi a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina ha stimolato il rilancio e l’ampliamento del processo di allargamento dell’UE», afferma Chiodi. «Oggi sono coinvolti tre nuovi Paesi che non erano mai stati considerati per l’adesione. La guerra ha spinto infatti l’Unione a concedere la candidatura all’Ucraina e alla Moldavia e ad aprire anche alla Georgia la cosiddetta prospettiva europea, ovvero la possibilità di acquisire in futuro la candidatura». Nel dicembre 2022 la Bosnia-Erzegovina ha finalmente ottenuto lo status di Paese candidato all’adesione; i cittadini del Kosovo hanno visto la liberalizzazione dei visti e sono stati rilanciati i negoziati tra Serbia-Kosovo. Di fatto – sottolinea l’esperta – la politica di allargamento, nello scontro con Mosca, è diventata uno strumento della politica di sicurezza per l’Europa che ne ha accresciuto la priorità. Anche perché si temeva che si aprisse un secondo fronte di guerra in Bosnia. «Questo non è avvenuto probabilmente perché la Russia è in grosse difficoltà sul piano militare in Ucraina. Ma Putin mantiene i suoi alleati nella regione balcanica (pensiamo alla Serbia che non ha aderito alle sanzioni UE contro Mosca), che sono facili strumenti di destabilizzazione politica. E Mosca è molto attiva con la sua propaganda politica...».

Passi avanti nel processo di integrazione sono stati fatti, ribadisce Chiodi, ma l’aria che si respira adesso, non solo nei Balcani, non dà spazio a grande ottimismo: «Non si andrà molto lontano nemmeno questa volta. Nei Balcani prevale l’idea che gli ucraini si illudano e che si ritroveranno presto con un pugno di mosche in mano, proprio come loro». La speranza si è trasformata in frustrazione. «Quello che mi ha impressionato, durante i miei recenti soggiorni in Bosnia, è che c’è ancora tanta paura, che le guerre finite più di una generazione fa non siano un passato difficile da elaborare, ma un tema politico del presente. E la paura in politica è la peggiore dei consiglieri... La paura e la mancanza di prospettive spinge fette consistenti di popolazione ad emigrare. Uno dei problemi più grossi della regione è infatti lo spopolamento. Un dramma che dà il senso della mancanza di speranza nel futuro. Un segno positivo viene dal dibattito che si è aperto in seno all’UE: alcuni Paesi membri hanno messo sul tavolo la questione del superamento dell’unanimità in politica estera. Qualcuno, insomma, si rende conto che il mondo è cambiato e bisogna adattarsi. Non escludo che il test Balcani venga prima o poi superato, ora è ancora lì a dimostrarci tutte le nostre difficoltà».