Martedì scorso alcuni dei candidati alla presidenza della Libia si sono riuniti, sorprendentemente, a Bengasi. Nel Tebsty hotel della città della Cirenaica si sono incontrati, a favore di telecamera, Fathi Bashagha, ex ministro degli Interni del Governo di Tripoli, Ahmed Maiteeq, membro del precedente Consiglio presidenziale e Khalifa Haftar, l’uomo forte dell’est, candidato presidenziale e da lungo tempo autoproclamato capo dell’Esercito nazionale libico. L’incontro preoccupa perché è avvenuto in concomitanza dell’annuncio, da parte della Commissione elettorale nazionale, di sciogliere i comitati che si stavano preparando per il voto del 24 dicembre. Voto che è stato poi ufficialmente annullato.
Nessuna delle parti in causa, la settimana scorsa (e nelle ultime settimane per la verità), voleva prendersi la responsabilità di dire agli elettori registrati che non avrebbero votato, e assumersi la colpa di un fallimento che era nell’aria da mesi. Finora non si indicano date sostitutive, solo un’ottimistica richiesta da parte della citata Commissione di svolgerle il 24 gennaio, «per dar modo di eliminare gli intralci alla tenuta delle medesime». Comunque colpisce che, nelle ore in cui la Commissione elettorale ha fatto un passo indietro, le immagini che arrivavano da Bengasi raccontavano di nuove alleanze, anch’esse nell’aria da mesi, che potrebbero generare nuove rivalità – leggasi scontri armati – nei prossimi mesi.
Fathi Bashagha, che un tempo considerava Haftar un criminale, un signore della guerra, la scorsa settimana a Bengasi l’ha ringraziato per il «generoso invito» dicendo che stavano riaffermando gli sforzi comuni per affrontare gli sviluppi del processo elettorale e rispettare il desiderio e il diritto di due milioni e mezzo di libici di votare. «La riconciliazione – ha detto Bashagha – è una scelta nazionale che non può essere ignorata». L’ex ministro degli Interni di Tripoli ha cercato per anni di diventare primo ministro, e questa non è la prima alleanza che stringe con i leader dell’est poiché si era precedentemente alleato con il presidente del Parlamento, Aqila Saleh, durante il Forum di dialogo politico libico all’inizio del 2021. Entrambi facevano parte della lista per nominare l’autorità provvisoria, il Governo di transizione nazionale; volevano uscire vittoriosi da quell’evento che sanciva l’inizio della transizione verso una Libia finalmente unita, ma hanno perso contro la lista che vinse, stupendo tutti, quella di Abdul Hamid Dbeibeh, l’attuale primo ministro.
Nonostante la sconfitta, Bashagha non ha rinunciato alle sue aspirazioni, perciò se formalmente l’incontro di Bengasi serviva a riunire le visioni di alcuni dei candidati presidenziali in vista della prossima fase del processo politico che vivrà la Libia, informalmente sembrava essere il preludio di una spartizione di potere tra ex nemici che hanno fretta di eliminare dalla competizione un nuovo nemico comune, l’attuale primo ministro del Governo di transizione Dbeibeh. A leggere tra le righe, come sempre è opportuno fare in un Paese dalle alleanze variabili come la Libia, il dato che emerge dall’incontro di Bengasi è che si stia concordando la formazione di un Governo di unità nazionale che sostituisca quello di Dbeibeh, nominato a Ginevra lo scorso febbraio, sotto la tutela e gli auspici delle Nazioni unite, che avrebbe dovuto traghettare il Paese a elezioni che però non si sono tenute. Dbeibeh sarebbe dunque, agli occhi dei candidati alla presidenza, venuto meno allo scopo per cui il suo Governo era nato. Per di più disattendendo uno degli impegni presi a Ginevra: il divieto di candidarsi alle elezioni. Nonostante questo impegno infatti, l’imprenditore di Misurata poche settimane fa ha annunciato la sua candidatura alle elezioni, provocando non pochi malumori sia negli ambienti diplomatici sia in quelli politici libici.
Per le strade di Tripoli, nonostante l’annullamento delle elezioni, campeggiano cartelloni che incoraggiano i cittadini a votare. «La tua partecipazione è il futuro del tuo Paese», come mostrano le foto di reporter locali. Erano quasi cento i candidati in corsa per la presidenza, alcuni tra i più importanti della politica libica. Più di un terzo dei libici si era registrato per votare e la maggior parte aveva segnalato l’intenzione di farlo. Il processo di pace era stato sostenuto con forza dai leader occidentali, dai funzionari delle Nazioni unite che avevano sostenuto le elezioni come unica speranza di riunificare un Paese di fatto spezzato in due dal 2014.
Eppure, nonostante un anno di sforzi, non si è riusciti a raggiungere posizioni comuni sulle basi legali delle elezioni e i parametri di legittimità dei candidati, tanto che uno di essi era addirittura Saif al Islam Gheddafi, uno dei figli dell’ex rais, ricomparso sulla scena pubblica dopo anni di oblio e nonostante penda su di lui un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra commessi durante la rivoluzione del 2011. Le controversie sulle regole fondamentali che disciplinano le elezioni sono proseguite durante tutto il processo, controversie sul calendario elettorale, sulla legge elettorale emanata a settembre dal presidente del Parlamento, sull’eleggibilità dei principali candidati e gli eventuali poteri del prossimo presidente e del prossimo Parlamento. Gli analisti hanno sottolineato che la spinta internazionale verso il voto del 24 dicembre aveva trascurato questioni cruciali, equilibri e squilibri decennali irrisolti, e ambizioni personali troppo marcate, le quali alla fine hanno fatto naufragare il voto.
Per cercare di trovare dei compromessi Stephanie Williams, la diplomatica delle Nazioni unite che ha mediato il processo di pace che ha portato all’accordo elettorale, si è recata in Libia nelle scorse settimane, tornando come inviata dell’Onu. Williams ha attraversato il Paese sperando di riuscire a garantire almeno un rinvio di qualche settimana. Il rinvio di poche settimane sarebbe il migliore dei casi, dopo il fallimento del corrente progetto, ma le voci che si susseguono parlano di un possibile rinvio a tempo indeterminato. La domanda ora non è solo quando potrebbe aver luogo il voto, ma chi, con l’attuale primo ministro ormai sulla porta, controllerà la Libia nel frattempo. A ricordare quale sia la soluzione più rapida dei problemi in Libia sono state una volta ancora le milizie armate, tornate nelle strade la settimana scorsa, alla periferia della capitale Tripoli, a ulteriore dimostrazione che la prima lingua usata quando i processi politici si dimostrano fragili è quella che la Libia ha conosciuto meglio nell’ultimo decennio, cioè quella delle armi.
Martedì scorso carri armati e miliziani si sono schierati in alcune zone periferiche di Tripoli, chiudendo la strada per il palazzo presidenziale in una dimostrazione di forza che non ha portato a violenze, ma ha alzato molto il livello di tensione in città. Inoltre, poiché gli scontri in Libia non esulano mai dalle risorse energetiche, i combattenti delle milizie lunedì scorso hanno chiuso due importanti oleodotti, provocando danni alla popolazione e ingenti perdite alla produzione di petrolio. Mentre le alleanze continuano a muoversi nell’ombra, i cittadini libici aspettano ancora una soluzione per un conflitto a intensità variabile che attraversa il Paese da anni. La possibilità che lo scontento incrociato si trasformi in un conflitto armato è molto alta. Questo racconta di un Paese complesso, ma anche, possiamo dirlo, di una certa superficialità della diplomazia che ritiene di poter nominare un presidente e un primo ministro di unità nazionale prima che siano risolti problemi strutturali del Paese e le sue divisioni interne.
Il caos libico dopo il rinvio delle elezioni
I problemi strutturali del Paese e le divisioni interne riemergono con forza mentre nelle strade tornano le milizie armate
/ 27.12.2021
di Francesca Mannocchi
di Francesca Mannocchi