Il camaleonte di Misurata

La speranza di pacificare la Libia si chiama Abdul Hamid Dbeibah, controverso uomo d’affari alla testa del nuovo Governo ad interim sostenuto dall’Onu. Lo attendono immani sfide sul fronte interno ed estero
/ 22.03.2021
di Francesca Mannocchi

Per la prima volta dopo sette anni il mondo guarda con cauto ottimismo alla Libia. Per qualcuno è un punto di svolta, per altri – più prudenti – un primo passo significativo che però ha bisogno di notevoli sforzi interni e la collaborazione degli attori internazionali. Il Paese nordafricano, la nona riserva petrolifera al mondo, è precipitato nel caos dopo che l’ex rais Muammar Gheddafi è stato rovesciato e ucciso, nell’ottobre 2011, durante la rivoluzione sostenuta dalla Nato. Le divisioni seguite alla stagione rivoluzionaria non si sono mai ricomposte, con il risultato che oggi il territorio è diviso tra interessi opposti della Tripolitania, della Cirenaica e di un mosaico di milizie armate in lotta per il potere.

Il 5 febbraio scorso a Ginevra, 74 delegati scelti dalle Nazioni unite per il Libyan political dialogue forum hanno eletto 4 figure alla guida di un nuovo Governo ad interim che dovrebbe rimanere in carica fino alle elezioni generali che si terranno il 24 dicembre prossimo. Il Forum libico ha scelto la lista guidata da Abdul Hamid Dbeibah, un candidato considerato controverso dagli analisti e la cui lista, fino alla vigilia dell’incontro, aveva scarse possibilità di uscire vincitrice. L’elezione è stata sancita da un voto di fiducia del Parlamento libico il 10 marzo e da una cerimonia di giuramento svoltasi il 15 marzo a Tobruk.

Il Governo di Dbeibah sostituisce sia il Governo di accordo nazionale di Tripoli (parte occidentale del Paese), presieduto da Fayez al-Sarraj e sostenuto dalla comunità internazionale, sia il gabinetto parallelo – non riconosciuto dalla comunità internazionale – di Abdallah al-Thani, con sede a Tobruk in Cirenaica (parte orientale), una regione chiave sotto il controllo delle forze dell’uomo forte Khalifa Haftar, un generale. Dbeibah è un ricco uomo d’affari originario della città portuale di Misurata. Ha conseguito un master in ingegneria all’Università di Toronto e la sua esperienza all’estero lo ha introdotto nella cerchia ristretta di Gheddafi e lo ha portato a dirigere una società che gestisce enormi progetti di costruzione. Durante il regime dell’ex rais, la ricchezza di Misurata esplose, la città beneficiò di un vero e proprio boom industriale, economico e la famiglia Dbeibah fu una delle prime a beneficiarne e ad accumulare risorse. Negli anni Settanta e Ottanta Dbeibah ha ricoperto importanti incarichi sotto il regime di Gheddafi. È stato sindaco di Misurata ed è descritto da tutti come un uomo scaltro, un camaleonte che sa muoversi nelle mutanti alleanze libiche e adattarsi alle circostanze politiche.

Gheddafiano prima, si è schierato con i rivoluzionari nel 2011, quando ha capito che il vento stava cambiando. Non è un teorico ma un pragmatico, vuole ricostruire la Libia a partire dalle infrastrutture del Paese, danneggiate da 10 anni di guerre. È noto anche che la famiglia Dbeibah è anche molto vicina alla Turchia e alla Fratellanza musulmana, e questo – l’influenza estera sulla Libia – sarà uno dei nodi più difficili da sciogliere per il suo Governo. Il 10 marzo scorso, a Sirte, Abdul Hamid Dbeibah ha ottenuto la fiducia di 132 votanti eletti alla Camera dei rappresentanti. Appena eletto ha dichiarato che per la Libia «è giunto il momento di voltare pagina su guerre, divisioni e di guardare alla riconciliazione e alla costruzione. È tempo di risolvere le divergenze in Parlamento e non sul campo di battaglia». Parole di buon senso che hanno l’aspirazione di riunire quello che dieci anni di guerra ad alta e bassa intensità hanno diviso.

Dbeibah comincia dalla composizione del Governo e dai segnali, dai simboli, che essa contiene, anche se la strada è ancora lunga e non c’è ancora un vero processo di riunificazione dei Ministeri. Ci sarà infatti ancora un Ministero dell’interno a Tripoli e un altro a Bengasi. Il primo ministro ad interim aveva promesso il 30 per cento di donne nel Governo, ma al momento l’aspettativa è stata disattesa: sono solo 5 su 31 Ministeri sono a guida femminile. Certamente, però, Ministeri di peso. Dbeibah ha nominato come ministra degli Esteri Najla El Mangoush, un’avvocata di Bengasi, un’attivista per i diritti umani, che lasciò il Paese nel 2013, due anni dopo la rivoluzione, per studiare negli Stati uniti. La sua nomina è una sfida. La ministra dovrà muoversi tra gli interessi di attori interni e attori esterni come la Turchia, la Russia e gli Emirati arabi uniti, impegnati nella divisione del Paese nordafricano in sfere di influenza e alla ricerca di lucrativi contratti petroliferi e di ricostruzione.

Il Governo deve affrontare sfide interne e ben più faticose sfide esterne. Per quel che riguarda le prime, bisogna considerare le necessità del popolo libico e i problemi più impellenti: l’impennata della disoccupazione, l’inflazione, la carenza di liquidità, le interruzioni di elettricità quotidiane e la corruzione. Per riuscire a risolvere gli annosi problemi, il Governo deve ripristinare e aumentare la produzione di petrolio, da cui dipende l’intera economia del Paese, sussidiata dalle royalties dell’oro nero. La produzione petrolifera ha subito infatti una grave interruzione a seguito dell’offensiva di Haftar sulla capitale Tripoli nell’aprile del 2019. Per dieci mesi il Paese non ha esportato greggio, provocando alle casse dello Stato un danno irrecuperabile di 10 miliardi di dollari.

Oggi la produzione è tornata a 1,3 milioni di barili al giorno, ma l’obiettivo del nuovo Esecutivo è raggiungere in sei mesi i 2,2 barili al giorno. Dbeibah vuole concentrare gli sforzi della ricostruzione proprio in questo ambito, vuole partire cioè dalle infrastrutture petrolifere gravemente danneggiate dall’ultimo conflitto.
In secondo luogo c’è la sfida legata alle ingerenze estere. Il Governo uscente di Tripoli, il Governo di accordo nazionale, aveva goduto del sostegno militare ed economico della Turchia che ha prestato sostegno a Sarraj nella guerra di Tripoli. Dall’altra parte, sul versante di Haftar, Russia, Emirati arabi uniti ed Egitto hanno contribuito con armi e denaro. Queste ingerenze non sono state interrotte dal Forum di Ginevra e sono forse il nodo più difficile da sciogliere per il Governo ad interim.

Turchia e Russia, soprattutto, vogliono raccogliere i frutti del sostegno militare ai Governi contrapposti e questi frutti sono contratti petroliferi, appalti per la ricostruzione del Paese e la vendita di armi che continua, costante, nonostante l’embargo e il dichiarato cessate il fuoco dell’ottobre 2020. Non solo, ma turchi e russi hanno basi militari in Libia e le Nazioni unite stimano la presenza di almeno 20 mila mercenari stranieri ancora presenti su suolo libico.

È da qui che Dbeibah deve ripartire, prima ancora di annunciare grandi progetti infrastrutturali. Dal potere delle armi che va smantellato. Sia quello delle milizie interne che hanno dimostrato in questi 10 anni di non voler rinunciare alla loro indipendenza, e hanno anzi aumentato il loro potere usandolo come arma di ricatto sui Governi, sia quello delle potenze estere che non vogliono rinunciare all’influenza acquisita negli ultimi due anni. Anni in cui l’Europa ha dimostrato di saper organizzare Forum e nominare Governi ma non di saperli sostenere nel tempo.