Il Califfato mette radici in Asia

Filippine – Marawi, 800 chilometri a sud di Manila, nell’isola di Mindanao, è diventata la «capitale» della provincia filippina del Califfato. Allarmatissimi l’Indonesia e gli altri vicini
/ 17.07.2017
di Giulia Pompili

Rodrigo Duterte è stato eletto presidente delle Filippine da poco più di un anno, e l’apprezzamento per il suo governo da parte dei cittadini non accenna a diminuire. Secondo l’ultimo sondaggio di Social Weather Station, l’istituto di ricerca più importante del Paese, il secondo quadrimestre del 2017 ha visto il gradimento del presidente Duterte al 66 per cento, e il fatto che sia in costante aumento pone il presidente in un trend completamente diverso rispetto ai suoi predecessori, che dodici mesi dopo l’elezione iniziavano a perdere il sostegno del pubblico. Il dato, proprio perché rilevato da un istituto indipendente e non governativo, è difficile da interpretare: Duterte è uno dei presidenti filippini più controversi della storia. Ha iniziato il suo percorso di governo tra le critiche, non solo per aver insultato Papa Francesco – nel Paese più cattolico d’Asia – e l’ex presidente americano Barack Obama.

Non solo per le sue uscite molto più che politicamente scorrette circa le sue abitudini sessuali, e per il linguaggio condito da gesti eloquenti (come quello del «tagliare la gola» ai nemici delle Filippine). Duterte si è attirato le critiche delle associazioni internazionali che difendono i diritti umani, del Parlamento europeo e della senatrice filippina Leila de Lima – attualmente in carcere e considerata una delle prime «prigioniere politiche» del presidente – per via della sua sanguinosa «guerra alla droga» contro spacciatori e tossicodipendenti. «Farò nel palazzo presidenziale quello che ho fatto quando ero sindaco di Davao», aveva detto un anno fa, «Tutti voi che siete coinvolti nel traffico di droga, io vi ucciderò. 

Non ho più pazienza, non ho mezze misure, se pensate di uccidermi io vi ucciderò prima». Duterte è accusato non solo di aver aizzato la polizia contro i signori della droga – e per le strade di Manila sono ormai quotidiani gli omicidi che coinvolgono trafficanti – ma di aver messo su, proprio come aveva fatto nella città di Davao, degli squadroni della morte che colpiscono indiscriminatamente utilizzatori e spacciatori. La polizia parla di tremila persone uccise negli ultimi dodici mesi, ma secondo Human Rights Watch sarebbero quasi diecimila. 

Nel frattempo, però, Duterte ha dovuto affrontare un problema ancora più esteso: l’estremismo islamico, che rischia di destabilizzare l’intera area del sud est asiatico. Non è un caso se l’ultimo numero di «Rumiyah», il magazine online dello Stato islamico, è dedicato al «Jihad nell’Asia dell’est». A pagina quattro c’è una fotografia a pagina intera di Rodrigo Duterte con la scritta: «Ma Allah li raggiunse da dove non se lo aspettavano (e gettò il terrore nei loro cuori)». Gli jihadisti si riferiscono alla battaglia di Marawi, una città di duecentomila persone capoluogo della provincia di Lanao del Sud, nella Regione autonoma nel Mindanao musulmano. Mindanao è la seconda isola per grandezza delle Filippine, ed è posizionata all’estremo sud del Paese. La capitale de facto dell’isola è la città di cui Duterte era sindaco, Davao, che si trova a duecentocinquanta chilometri a sud-est da Marawi. Dal 24 maggio scorso in tutto quel vasto territorio Duterte ha proclamato la legge marziale, per tentare di contenere un’insurrezione islamista che ancora oggi, nonostante il massiccio uso di forza, non è riuscito a risolvere. 

Il caos è stato provocato da una operazione di intelligence finita male. Secondo le Forze speciali filippine, il 23 maggio scorso si sarebbe dovuta tenere a Marawi una riunione tra i due più potenti gruppi islamisti affiliati allo Stato islamico delle Filippine, il gruppo Maute e Abu Sayyaf. Il governo voleva trovare Isnilon Hapilon, nominato dall’Isis «emiro» dello Stato islamico nel sud est asiatico e uno degli uomini più ricercati dall’antiterrorismo mondiale. Quando, però, l’esercito filippino ha iniziato l’operazione contro il quartier generale del gruppo Maute dove si sarebbe dovuta tenere la riunione, la risposta è stata più forte delle loro aspettative. Gli islamisti, evidentemente preparati e addestrati alla guerriglia urbana, sono riusciti a cacciare le Forze armate, ad asserragliarsi nella chiesa locale, a prendere ostaggi. Il Vescovo Edwin De la Pena, che guida la Prelatura apostolica di Marawi, ha detto all’Agenzia Fides: «La situazione è estenuante: sono passati oltre 40 giorni di guerriglia e la nostra splendida città di Marawi è ridotta in macerie. Siamo in pena per padre Chito – uno dei rapiti del gruppo di estremisti – e gli altri ostaggi. Speriamo con tutto il cuore e preghiamo che la guerra qui finisca al più presto». Secondo le stime ufficiali fornite dal governo, a oggi la battaglia di Marawi avrebbe fatto 351 morti tra le fila degli jihdisti, 39 tra i civili e 85 tra i militari. Da qualche settimana il governo di Duterte, nonostante abbia più volte cercato di allontanarsi dall’influenza di Washington preferendo esplicitamente quella di Pechino, ha dovuto accettare l’aiuto strategico dell’esercito americano, che adesso assiste quello filippino nella riconquista della città. 

Tra i paesi più preoccupati dalla situazione nelle Filippine c’è l’Indonesia, che da mesi è alle prese con un revival dell’integralismo islamico, nonostante il governo laico e la Costituzione stessa di Giacarta che promuove la pluralità religiosa. Dopo l’accusa di blasfemia dell’ex governatore della capitale indonesiana, i gruppi islamici – anche quelli riconosciuti e vicini alle amministrazioni locali – sono galvanizzati. E ora il governo del presidente Joko Widodo teme che l’estremismo possa avere presa più facile tra i giovani, specialmente in quelle regioni indonesiane dove tradizionalmente l’islam radicale fa proseliti. Ultimamente Giacarta ha subìto diversi, contenuti segnali: il 14 gennaio del 2016 due kamikaze si fecero esplodere e uno sparuto gruppo armato tentò di attaccare vari punti della città, facendo sette morti – compresi gli assalitori. La risposta della polizia aveva fermato gli islamisti, ma l’attacco era stato rivendicato dallo Stato islamico, segnando il primo attentato su territorio indonesiano del gruppo guidato da Abu Bakr al Baghdadi. Fino ad allora, l’Indonesia, aveva avuto una sanguinosa guerra con i proseliti di al Qaida, che sembrava finita. 

Secondo l’intelligence di Giacarta, nelle Filippine sarebbero operativi circa 1200 foreign fighters, e almeno quaranta di loro sarebbero cittadini indonesiani. Anche la Malaysia è in allerta: il ministero dell’Interno di Kuala Lumpur teme che gli jihadisti che ora fanno base nelle Filippine possano arrivare a Sabah, nel nord del Borneo. È la regione con cui condivide il Mare di Sulu, una delle aree di mare più pericolose del mondo proprio per la presenza di pirati e gruppi islamici. Dopo aver perso uomini e terreno nelle aree di Siria e Iraq, è in queste aree grigie asiatiche, dove i governi arrivano con difficoltà anche per motivi geografici, che lo Stato islamico sta puntando. 

A fine giugno, Filippine, Indonesia e Malaysia hanno ufficializzato un accordo per condividere le informazioni di intelligence, per tracciare le comunicazioni e il traffico di armi, di combattenti e di denaro. Tutto per cercare di far fronte in quello che è stato definita «la più grave minaccia alla sicurezza che il sud est asiatico abbia dovuto affrontare da decenni». Secondo molti osservatori, però, il problema più grave viene dalle Filippine: il presidente Duterte difficilmente riuscirà a trovare un canale di dialogo con gli estremisti che combattono a Marawi. «Questa guerra non finirà finché l’ultimo terrorista non sarà ucciso», ha detto qualche giorno fa, mostrando la volontà di continuare con l’offensiva militare, che nel frattempo sta provocando centinaia di migliaia di sfollati. Nella strategia da pugno di ferro di Duterte non è ammesso alcun errore da parte del governo, per questo, secondo alcuni osservatori, il problema del radicalismo islamico nelle Filippine rischia di essere sottostimato, oppure considerato risolto soltanto con la riconquista di Marawi: «La risposta violenta all’insurrezione a Mindanao non può distogliere dalla minaccia che pone Abu Sayyaf nelle province di Basilan e Sulu», ha scritto il «Philippine Star» in un editoriale, «qui il gruppo estremista continua a rapire, soprattutto stranieri, per finanziare la sua guerra al terrore».