Idlib, prossima tragedia

Siria – Una escalation della guerra in Siria dopo il raid di Usa, Francia e Gran Bretagna è possibile nella roccaforte ribelle nel nord-ovest del Paese, probabile obiettivo dell’offensiva del regime di Assad
/ 30.04.2018
di Marcella Emiliani

Dopo la pioggia di missili americani, inglesi e francesi che il 14 aprile scorso ha ammonito Bashar al-Assad a non fare mai più uso di armi di distruzione di massa contro i suoi concittadini, la comunità internazionale ha cominciato a mobilitarsi per tentare di «fare qualcosa» a favore della Siria. «Fare qualcosa» è una brutta allocuzione, ma è difficile trovarne una più decente e precisa. A livello di interventi armati, vista la situazione sul terreno e la preoccupazione generale di non innescare altri conflitti, l’Occidente si ritiene soddisfatto della piedigrotta del 14 aprile quando Usa, Gran Bretagna e Francia hanno distrutto gli impianti che producevano ancora bombe al cloro o al gas nervino, dopo aver avvisato la Russia di quanto stavano per fare. Con una frase a dir poco infelice – visti i precedenti dell’Operazione Iraqi Freedom di George Bush Jr. nel 2003 – il presidente Trump ha poi ritenuto di commentare l’impresa con un bel: «Missione compiuta!», ma di compiuto in Siria c’era e c’è ben poco dal punto di vista americano.

Non è affatto chiaro infatti se gli Stati Uniti intendano rimanere in Siria con i 2000 effettivi delle loro truppe speciali oggi stanziate a Manbij nel Kurdistan siriano dove rischiano di entrare in rotta di collisione con l’esercito turco che avanza verso est dopo la conquista di Afrin avvenuta il 18 marzo scorso con l’aiuto del Libero Esercito di Siria. E a rendere ancor più enigmatiche le mosse americane verso la Siria ci sono le sorti dell’Accordo sul nucleare iraniano (il Piano d’azione congiunto globale, in inglese Joint Comprehensive Plan of Action, acronimo Jcpoa) che Trump intende modificare profondamente se non abrogare il prossimo 12 maggio con estrema irritazione di Teheran che minaccia addirittura di uscire dall’Accordo, mentre l’Unione europea, la Cina e la Russia non perdono occasione per esprimere la loro preoccupazione. L’unico fuori dal coro dei Grandi è il presidente francese Macron che, nella sua visita a Washington del 24 e 25 aprile, ha approvato l’intenzione di Trump di metter mano al Jcpoa senza considerare, al pari del suo omologo statunitense, le gravi conseguenze che potrebbero derivare dal mancato rispetto dell’Accordo medesimo da parte di due dei 5+1 firmatari che lo hanno sottoscritto nel 2015 (cioè Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia più la Germania). Non a caso questa settimana a trovare Trump arriva alla Casa Bianca anche Angela Merkel.

Toccare anche solo un articolo del Jcpoa, che secondo l’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) dal 2015 ad oggi è stato pienamente rispettato dall’Iran, o tornare ad imporre sanzioni all’Iran, avrà infatti pesanti conseguenze per l’intero Medio Oriente ma soprattutto per la Siria e l’Iraq che – purtroppo per loro – dipendono da Teheran per la loro stabilità. E potrebbe avere conseguenze nefaste anche nel già tesissimo rapporto tra Iran e Israele, entrambi attori regionali di prima grandezza che nessuno oggi può controllare sulla scena internazionale.

Detto ciò, il «qualcosa» realizzato nel frattempo per la Siria è stata la Conferenza internazionale dei paesi donatori che si è chiusa a Bruxelles il 25 aprile con un risultato ancora una volta ambiguo e deludente. Si parlava sostanzialmente di aiuti alla ricostruzione, ai 5 milioni di profughi siriani (praticamente un quarto della popolazione) e ai 6,1 milioni di sfollati interni, tutti prodotti dalla guerra multipla che si combatte da 7 anni a questa parte, oltre ai 350’000 morti. L’obiettivo era raccogliere almeno 6 miliardi di dollari. Si è arrivati solo a 4,4 miliardi (3,6 miliardi di euro) con gli Stati Uniti che non hanno neanche detto quanto verseranno e se verseranno un loro contributo. D’altronde è difficile ricostruire e soccorrere quando i conflitti sono ancora in corso e si teme addirittura che ne scoppino altri. Proprio per questo sono risultati un po’ patetici gli appelli alla Russia, alla Turchia e all’Iran della Mogherini, la ministra degli Esteri dell’Unione europea, perché diano una mano a far ripartire i negoziati dell’Onu con la partecipazione sia del regime di Damasco sia delle opposizioni. I veti incrociati ormai sono tali e tanti che le Nazioni Unite, screditate come sono, difficilmente potranno venirne a capo.

Nel frattempo chi ha le idee chiarissime su cosa fare è Bashar al-Assad: stanare quelli che lui chiama terroristi (che siano jihadisti radicali o semplici oppositori «ribelli») ovunque siano rimasti annidati e in primo luogo nei sobborghi della capitale. Perciò gasificata la Ghouta orientale, ha cominciato a dirigere i suoi jet e il suo esercito sui quartieri meridionali di Hajar al-Aswad, Tadamoun, Qadam e in particolare sul campo profughi palestinese di Yarmouk, che coi suoi 160’000 abitanti fino al 2011 era il più grande di tutta la Siria. Dopo l’inizio della primavera siriana vi si erano insediate diverse organizzazioni «ribelli», spesso in lotta tra loro, prima di venire cacciate dall’Isis che nel 2015 assunse il controllo del campo. Da allora Yarmouk si è progressivamente spopolato, e dalla seconda settimana di aprile, quando è diventato oggetto dei pesanti bombardamenti aerei e terrestri dell’esercito siriano che hanno fatto un centinaio di morti, sono sfollati altri 5000 palestinesi verso il quartiere di Yalda. I terroristi veri, cioè i jihadisti dell’Isis rimasti intrappolati nel campo sarebbero un migliaio e per loro non c’è alcuna possibilità di evacuazione, ovviamente.

Finito il lavoro sporco nei sobborghi meridionali di Damasco, Bashar andrà poi a riprendersi il pieno controllo dei pozzi petroliferi nel governatorato di Deir el-zor nella regione orientale del paese confinante con l’Iraq, da cui l’Isis traeva gran parte dei suoi profitti, e andrà a rafforzare la presenza del suo esercito a Manbij nel Kurdistan siriano (Rojava) orientale, Turchia permettendo. Dopo la conquista turca di Afrin del 18 marzo scorso, l’offensiva su Manbij è decisamente rallentata. Si è saputo di telefonate piuttosto nervose tra Erdoğan e Trump sull’operazione Ramoscello d’Olivo che dovrebbe portare la Turchia a controllare tutta la regione settentrionale curda della Siria (il Rojava). Nel frattempo gli Stati Uniti hanno cominciato a costruire altre due postazioni militari a Manbij in località al-Dadat in primo luogo per portare a termine la lotta all’Isis che rimane la loro priorità assoluta in Siria; in secondo luogo per «restaurare» almeno in parte la loro reputazione presso i curdi che si sono sentiti traditi dagli Usa quando – dopo averli usati come carne da cannone nella lotta al Daesh – non li hanno difesi dall’offensiva turca su Afrin. Ricordiamo che a dar man forte contro la Turchia alle Unità di difesa del popolo curdo (Ypg) è stato l’esercito di Assad che è alleato della Turchia di Erdoğan.

Nonostante si combattano, nel Kurdistan Ankara e Damasco hanno comunque un interesse in comune. Mirano infatti entrambi a sostituire quote il più possibile numerose di popolazione a loro ostile. Erdoğan vuole sbarazzarsi dei curdi siriani che ritiene terroristi perché le Unità di difesa del popolo curdo sono state addestrate e hanno accolto tra le loro fila militanti del Pkk, Partito del popolo curdo, fuorilegge in Turchia. Non li vuole soprattutto sul suo confine orientale perché potrebbero dare man forte ai curdi di casa sua. E per rendere pienamente operativa l’epurazione etnica nel Rojava, Erdoğan ha già cominciato a «importare» nella zona di Al Bab, che aveva conquistato nel 2016, migliaia di quei tre milioni di profughi siriani che ospita nel suo Paese. L’unico criterio con cui li sceglie per il rimpatrio è che non siano curdi: van bene turkmeni, circassi, arabi, ma non curdi. E la stessa cosa farà ad Afrin appena l’avrà stabilizzata, a Manbij appena l’avrà conquistata (se Trump non lo fermerà) e nel governatorato (provincia) di Idlib.

Ma proprio a Idlib i disegni perversi di Erdoğan e Assad potrebbero entrare in rotta di collisione. A Idlib si è concentrata ed è stata dirottata, con accordi in genere negoziati dalla Russia, la maggior parte dei «ribelli» rimasti vivi, in patria e operativi. Qui Bashar arriverà a fare piazza pulita dei suoi oppositori, terroristi veri come quelli di Hayat Tahrir al Sham, Organizzazione per la liberazione del Levante (ex Fronte al-Nusra, creatura di al-Qaeda) o immaginari, in tutti i casi sunniti che tenterà di sostituire con cristiani, sciiti duodecimani o alauiti come lui. Ma proprio perché sono sunniti, potrebbe suscitare le ire di Erdoğan che nella sua megalomania ottomana si considera un sultano sunnita. Per la cronaca la Turchia nella provincia di Idlib si è enormemente rafforzata e ha cominciato a favorire l’alleanza se non la fusione di gruppi di «ribelli» sunniti islamisti radicali del tipo Fronte per la liberazione della Siria (Jabhat Tahrir Suriya), ostile tanto al regime di Damasco quanto alla jihadista Organizzazione per la liberazione del Levante. Detto in altre parole, pur di sbarazzarsi di Bashar al-Assad, Erdoğan ha ricominciato a finanziare e a favorire gruppi islamisti radicali come nel 2011-2012 finanziava e favoriva l’Isis con lo stesso fine.

Non è un caso che alla Conferenza dei paesi donatori della Siria di Bruxelles il 24 aprile scorso, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi, ha già lanciato l’allarme per Idlib dove potrebbe verificarsi a breve un’altra gravissima catastrofe umanitaria.