Olio di palma indigesto

Il 7 marzo prossimo, gli Svizzeri saranno chiamati alle urne per esprimersi anche su un terzo oggetto in votazione: l’Accordo di libero scambio tra gli Stati dell’AELS (Svizzera, Islanda, Liechtenstein, Norvegia) e l’Indonesia, firmato a Giacarta il 16 dicembre 2018, dopo otto anni di negoziati. Le Camere lo hanno approvato a larga maggioranza nel 2019. Dal rifiuto dell’adesione della Svizzera allo Spazio economico europeo (SEE), nel 1992, è la prima volta che un accordo commerciale viene sottoposto al popolo. Pomo della discordia: l’olio di palma, perché la sua produzione distrugge la foresta vergine e l’importazione fa concorrenza alla produzione indigena di olio di girasole e di colza.

Comunque, la posta in gioco è importante. L’accordo deve consentire alle imprese svizzere di accedere senza ostacoli a un mercato di 271 milioni di abitanti. Quarto paese più popolato del mondo, l’Indonesia registra una crescita folgorante. Secondo gli esperti, entro il 2050 dovrebbe figurare tra le quattro maggiori economie mondiali.

L’accordo riduce i diritti doganali e gli ostacoli al commercio per facilitare gli scambi tra Svizzera e Indonesia. Aprendo nuove prospettive economiche, i principali settori d’esportazione elvetici dovrebbero trarne profitto. Governo e Parlamento ne sono più che convinti, in un momento di difficoltà dovute al Coronavirus. In futuro, i prodotti industriali non saranno più sottoposti a dazi, contrariamente a quelli agricoli. I dazi sull’olio di palma saranno ridotti del 20-40%. Queste riduzioni tariffarie sono concesse per un massimo di 12’500 tonnellate annue. Dal 2012 al 2019, la Svizzera ha importato mediamente da tutto il mondo 32’000 mila tonnellate all’anno di olio di palma. Soltanto dall’Indonesia, nel 2019 ne ha importate 35 tonnellate, pari solo allo 0,1%, contro il 2,5% negli anni prima. La tendenza è al ribasso.

Le imprese potranno produrre in modo meno caro, rafforzare la competitività ed evitare ai loro prodotti d’essere discriminati in Indonesia, ha sottolineato il ministro dell’economia Guy Parmelin. La Svizzera – ha aggiunto – non può restare ai margini di un mercato che stuzzica gli appetiti dei suoi concorrenti.

A due settimane dal voto, i giochi non sono ancora fatti, anche se i «sì» sembrano avere un leggero vantaggio. Le disposizioni concernenti l’olio di palma, di cui l’Indonesia è il maggiore produttore mondiale, non convincono. Durante i negoziati con l’Indonesia, una coalizione di ONG e di organizzazioni contadine aveva chiesto invano che il prodotto fosse totalmente ritirato dal progetto. Anche interventi parlamentari in questo senso non hanno avuto successo.

Così, il bio-viticoltore ginevrino Willy Cretegny, il sindacato agricolo Uniterre, i Giovani socialisti, associazioni in favore del clima e dei diritti umani hanno lanciato il referendum, con lo slogan «Stop all’olio di palma», con l’appoggio dei Verdi. Essi temono un aumento della deforestazione (ogni ora la foresta pluviale perde un’area pari a 100 campi di calcio in favore delle piantagioni di palma da olio), un peggioramento delle condizioni di lavoro (anche minorile) e una concorrenza sleale verso i produttori di oli vegetali (colza e girasole) in Svizzera.

Nonostante l’introduzione di contingenti sulle importazioni di olio di palma e le concessioni fatte nel frattempo dal Consiglio federale, nonché le limitazioni contenute nell’ordinanza d’applicazione (che regola gli aspetti legati alla tracciabilità e alla certificazione), in consultazione fino al 1° aprile, i fautori del referendum sono convinti che i controlli e le sanzioni previste saranno inefficaci. L’accordo non porrà fine alla distruzione delle foreste tropicali, agli impatti sulla biodiversità e ai pericoli per le popolazioni locali. Non fornisce garanzie sulla sostenibilità.

Per UDC, PLR, PPD, Verdi liberali, UDF e associazioni economiche, l’accordo offre invece un’opportunità per promuovere una produzione sostenibile. Definisce regole per un commercio rispettoso dell’essere umano e dell’ambiente. L’olio di palma rappresenta soltanto una minima parte nello scambio commerciale svizzero-indonesiano. Varie organizzazioni che ne avevano chiesto il ritiro (Greenpeace, Public Eye, Alleanza Sud) approvano ora i progressi introdotti in materia di ambiente e di diritti dell’uomo. Il PS, pronunciatosi contro in Parlamento, sostiene pure il trattato. Lo stesso dicasi per l’Unione svizzera dei contadini. In caso di approvazione il 7 marzo, l’accordo entrerà in vigore tre mesi dopo la ratifica da parte dell’ultimo contraente. /AC


Identità elettronica, progetto rischioso?

Votazioni federali 7 marzo - Alle Organizzazioni contrarie alla nuova legge non piace che siano degli operatori privati e non lo Stato a fornire questo nuovo servizio
/ 22.02.2021
di Alessandro Carli

Introdurre in Svizzera un’identità elettronica univoca, sicura e semplice. È quanto propone la Legge federale sui servizi d’identificazione elettronica, che Consiglio federale e Parlamento chiedono ai cittadini di approvare il 7 marzo prossimo. Si vota perché contro questo progetto è stato lanciato il referendum. Gli oppositori contestano il fatto che per avere un’identità digitale si debba passare attraverso operatori privati. Ed è appunto il ruolo che lo Stato assegna a questi fornitori di identità riconosciuti dalla Confederazione, come banche e compagnie assicurative, a sollevare più di un interrogativo, tanto che il progetto potrebbe anche naufragare. Secondo i sondaggi, infatti, i contrari continuano a guadagnare terreno, attestandosi al 55%. I favorevoli scendono al 40%. Per i promotori del referendum, «i dati sensibili non devono essere gestiti da privati e il rilascio dell’identità elettronica spetta solo alla Confederazione».

Attualmente, per acquistare un biglietto ferroviario, pagare una fattura, leggere il giornale o fare shopping in Internet ci si deve sovente identificare con un nome di utente e una password. Ma queste procedure non sono sempre sicure, anche perché non sono disciplinate da una legge. Non si può dunque contare sul fatto che lo Stato ne garantisca l’affidabilità. Perciò, con la legge sottoposta al popolo, Berna vuole introdurre un’unica identità elettronica (la cosiddetta «Ie»), certificata dallo Stato, in risposta a quella fornita da reti sociali e grandi piattaforme online. L’identificazione elettronica permette di stabilire con certezza che una persona è realmente quella che afferma di essere in Internet. Grazie all’Ie sarà anche possibile compiere operazioni che solitamente comportano la necessità di recarsi sul posto, come aprire un conto in banca o richiedere un documento ufficiale, per esempio l’estratto del casellario giudiziale.

In un mondo sempre più digitalizzato, che ha modificato le abitudini e le esigenze delle persone, l’idea proposta dovrebbe avere tutto per piacere. Il problema – come detto – risiede nel rischio legato alla partecipazione del settore privato. Per gli oppositori, l’«Ie» permetterà infatti di identificarsi nel mondo digitale, come lo si fa con la carta d’identità o il passaporto nel mondo reale. Per loro si tratta di un nuovo documento d’identità, una sorta di «passaporto digitale» svizzero. Al posto dell’Ufficio passaporti, saranno così imprese private ad amministrare i dati sensibili dei cittadini. Il rilascio di un documento d’identità e la sua protezione – sottolineano – deve invece essere una competenza esclusiva dello Stato.

Con la nuova Legge sull’identificazione elettronica, approvata dalle Camere nel settembre del 2019, la Confederazione sarà relegata al rango di mero fornitore di dati, rilevano la ONG «Digitale Gesellschaft» (Società digitale), l’organizzazione svizzera Campax, la piattaforma WeCollect e l’associazione Public Beta, all’origine del referendum, che hanno raccolto 65’000 firme. Esse sono sostenute anche da PS, Verdi, Verdi liberali, UDF, sindacati e associazioni degli anziani. Vi si oppongono pure otto cantoni, a loro volta convinti che il rilascio dei documenti d’identità sia una prerogativa essenziale dello Stato. «I privati non devono quindi impossessarsi di questo compito sovrano e per di più approfittarne». Secondo Daniel Graf, cofondatore di Public Beta, «ogni operazione effettuata online verrà registrata in una base di dati centralizzata. Anche se quest’ultimi dovranno essere cancellati ogni sei mesi (come previsto dall’art. 15, sugli obblighi del fornitore), la loro esistenza è un rischio per ogni utente». Basti pensare ai vari attacchi informatici, tra cui contro Swisscom.

Si tratta di argomenti che Governo e partiti borghesi respingono. Con questa soluzione moderna, la Confederazione conserva i propri compiti sovrani: verifica l’identità delle persone ed esercita la sorveglianza sui fornitori di identità, offrendo le necessarie garanzie in fatto di sicurezza e di affidabilità del sistema. Gli aspetti tecnici sono invece affidati ad aziende, cantoni e comuni. Per la ministra di giustizia e polizia Karin Keller-Sutter, incaricata del dossier, i ruoli sono chiari e il progetto è sicuro. L’«Ie» non è affatto un «passaporto digitale» e non consentirà a chi ne è in possesso di superare le frontiere. È semplicemente un «login qualificato» facoltativo. Nessuno sarà infatti obbligato a utilizzarlo. Gli acquisti online resteranno possibili senza questa identificazione elettronica.

Responsabile per il riconoscimento e la supervisione del rilascio della «Ie» sarà una commissione federale ad hoc che dovrà vigilare che non vi siano abusi di dati personali. Avrà pure la competenza esclusiva di certificare i fornitori pubblici e privati autorizzati al rilascio delle identità elettroniche. La società emittente dovrebbe essere Swiss Sign Group, che riunisce Posta, FFS, Swisscom, Six, grandi banche e assicurazioni. In base alla legge, i dati possono essere trasmessi solo con il consenso esplicito della persona che usa l’identificazione elettronica, mentre i fornitori possono usare i dati soltanto per l’identificazione. È vietato utilizzarli per altri scopi o trasmetterli a terzi.

L’«Ie» conterrà i seguenti dati d’identificazione: cognome, nome, data e luogo di nascita, sesso, nazionalità e una fotografia. L’utente potrà pure decidere di aggiungervi l’indirizzo postale, email o il numero di telefono. Non tutti i dati saranno sistematicamente trasmessi. Sono stati determinati tre livelli di sicurezza: «basso», «significativo» ed «elevato». L’acquisto di una bottiglia di whisky rientra nella prima categoria; per un estratto del casellario giudiziale saranno invece forniti tutti i dati. L’aspetto concreto dell’«Ie» non è ancora noto e anche il suo prezzo non è stato determinato. Il Consiglio federale intende incoraggiare i fornitori a metterla a disposizione dei cittadini gratuitamente.

Dunque, due le opzioni: lasciare l’identificazione elettronica in mano a privati, con le sue insidie e incognite (inesistenti, secondo governo e parlamento), oppure affidare il rilascio dei documenti allo Stato, come chiede il comitato referendario. I fautori avvertono che un «no» al progetto non sarebbe automaticamente un «sì» a una soluzione solo statale. Non essendo quest’ultima politicamente o tecnicamente scontata, essa richiederebbe anni supplementari prima di entrare in vigore. Per stare al passo coi tempi, la Svizzera non può fare a meno di adottare una legge che garantisca sia la correttezza dell’identificazione, che la protezione dei dati. A pretendere l’esclusività dello Stato, si corre il rischio di perdere il treno.