I torbidi meccanismi della guerra

La storia è maestra di vita? A giudicare da cosa abbiamo imparato dai due conflitti mondiali si direbbe di no
/ 14.03.2022
di Alfio Caruso

Non è vero che la storia sia maestra di vita. Se lo fosse, il 1914 ci avrebbe insegnato che una guerra distruttiva può essere anche figlia di un desiderio assoluto e generalizzato di non scatenarla; e il 1938 ci avrebbe insegnato che, a seconda delle reali intenzioni dei partecipanti, ogni trattativa può rappresentare la via più breve verso una guerra distruttiva. Aggiungiamo che l’embargo petrolifero degli Usa nei confronti del Giappone, luglio 1941, fu la causa dell’attacco nipponico a Pearl Harbour.

Nell’Europa spensierata della Belle époque, la cui pace sembra garantita da una mole imponente di trattati, il 28 giugno 1914 equivale all’11 settembre 2011. L’attentato di Sarajevo manda gambe all’aria ogni equilibrio, come accadrà con l’attacco di Al Qaeda alle Torri Gemelle di New York. Quel 28 giugno Francesco Ferdinando, principe ereditario d’Austria-Ungheria, è in visita ufficiale con la consorte nella capitale della Bosnia, estremità meridionale del vastissimo impero. Sfuggito al lancio di una bomba, anziché allontanarsi, il principe va a salutare i feriti in ospedale. L’autista sbaglia però percorso: in tal modo Francesco Ferdinando e la moglie sull’auto scoperta finiscono a pochi metri dalla pistola di Gavrilo Princip. È uno studente militante nella Giovane Bosnia, raggruppamento mirante alla riunificazione di tutti gli jugoslavi, in stretto contatto con la Serbia. I due colpi della Browning di Princip feriscono mortalmente l’arciduca e la moglie. Francesco Ferdinando sconta la fama di protettore degli slavi e il progetto di costituire, una volta salito al trono, una terza entità statuale da affiancare all’Austria e all’Ungheria. Un pericolo agli occhi della Mano Nera, il movimento guidato dal capo dei servizi segreti di Belgrado, Dragutin Dimitrijevic, detto Apis, e aspirante alla costituzione di una nazione jugoslava. Da qui l’ispessirsi dei rapporti con i patrioti della Giovane Bosnia.

A Vienna considerano il doppio omicidio di Sarajevo la prova definitiva degli intrighi serbi per disgregare la duplice monarchia. Tre settimane di accurate indagini servono per verificare che la Germania onorerà la sua alleanza militare e per convincere lo scettico conte ungherese Tisza, capo del governo magiaro. Il 24 luglio l’Austria-Ungheria invia un ultimatum pesantissimo alla Serbia: vengono lasciate soltanto 48 ore per la risposta. Lo stesso giorno, dopo un incontro riservato con Pio X e con il segretario di Stato, cardinale Merry del Val, Otto von Ritter, ministro della Baviera presso la Santa Sede, spedisce il seguente telegramma: «Il Papa approva l’azione vigorosa dell’Austria contro la Serbia e, in caso di guerra contro la Russia, ritiene che le armate, sia russe sia francesi, non siano di livello elevato. Il cardinale segretario di Stato spera anche che l’Austria questa volta tenga duro». Il Vaticano è preoccupato dalla politica zarista nei Balcani: teme che favorirà i cristiani ortodossi a danno dei cattolici; è convinto che l’Austria costituisca il più efficace dei baluardi; intravede nelle scelte della Gran Bretagna e della Francia l’interventismo massonico – più o meno come il patriarca di Mosca contro i gay coccolati dall’Occidente – quindi assegna agli imperi centrali il compito di proteggere gli interessi della Chiesa dimenticando, opportunamente, che la maggioranza tedesca sia protestante.

Dietro la pressione di Francia e Gran Bretagna, che non hanno alcuna voglia di scendere in campo per difendere i serbi, questi accettano la gran parte dei dieci punti dell’ultimatum. Si mostrano disponibili pure dove esprimono qualche riserva. L’accordo sembra a un passo con sollievo generale. Ma la Russia non è contenta: considera che la flotta e l’esercito siano i suoi imbattibili alleati – vecchia massima dello zar Alessandro III, il modello di Vladimir Putin – dunque sobilla Belgrado a rigettare l’ultimatum. Si rassegna pure l’84enne Francesco Giuseppe, da sessantasei anni sul trono d’Austria-Ungheria. Il passo finale viene deciso quasi a cuor leggero a Vienna, la capitale più affascinante d’Europa, da inizio secolo crogiolo di civiltà e di culture: dai valzer travolgenti di Strauss alle teorie spiazzanti di Freud. Ogni giorno nei suoi caffè, nei suoi teatri, nei suoi viali alberati si alzano inni alla felicità della vita: talenti di ogni continente ne sono attratti, a eccezione del giovane Adolf Hitler respinto e indotto ad abbandonarla. Un’atmosfera che ha contagiato ogni capitale europea, dove prevedono che in ogni caso si tratterà di una scaramuccia con poche schioppettate e in breve tempo si tornerà allo champagne, ai café chantant, alle ultime invenzioni del cinema e dell’aereo.

Così la guerra, che nessuno vuole, diventa inevitabile, lo sfogo per ogni problema irrisolto. Le oligarchie di Berlino, di San Pietroburgo, di Vienna inseguono nel conflitto la soluzione dei crescenti problemi interni: in Germania opporre una vittoria militare ai successi politici del partito socialdemocratico; in Russia bloccare il dilagante malcontento di contadini e operai; in Austria mettere un freno alle tante nazionalità ansiose di autonomia. E allora possiamo immaginare come una vendetta dei tanti milioni di morti e feriti (rispettivamente 8 e 20 circa, secondo l’Enciclopedia Treccani) che i tre imperi responsabili del conflitto – russo, tedesco e austroungarico – siano saltati per aria.

Salto in avanti nel tempo. Il 29 e il 30 settembre 1938 nella Conferenza di Monaco il premier inglese Chamberlain e quello francese Daladier sono persuasi di aver trovato con Hitler e il suo maggiordomo Mussolini l’intesa capace di «garantire pace per il nostro tempo». Chamberlain lo sostiene al suo ritorno a Londra sventolando sulla scaletta dell’aereo l’inutile foglio di carta siglato dai quattro contraenti. L’accordo è raggiunto sulla pelle della Cecoslovacchia, i cui rappresentanti neppure sono ammessi al tavolo della trattativa: dovrà cedere alla Germania la regione dei Sudeti a prevalenza tedesca. Hitler firma sapendo già che calpesterà il pezzo di carta. La strada per il secondo conflitto mondiale è aperta. Come, per altro, pronosticato da Churchill: «Potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore, avranno la guerra».

Chamberlain e Daladier si sono fidati di Hitler, benché nel ’36 abbia occupato la Renania, mostrato il riarmo della Wehrmacht e nel marzo ’38 abbia provveduto ad annettere la natia Austria al Terzo Reich. Pure in questo caso se n’è fregato del trattato firmato due anni prima con l’assicurazione di non interferire negli affari interni di Vienna. Che ha nel mirino già dal ’34, quando l’aveva fermato l’Italia inviando un’armata al confine. Adesso, però, Mussolini è solo un folcloristico servitore e l’esercito germanico è stato addestrato e rifornito in maniera adeguata. Ecco che cosa ci racconta la storia, se volessimo imparare da essa. Ci spinge a dubitare sia delle promesse, sia a credere che la pace interessi davvero a tutti coloro che a parole la inseguono. In quattromila anni mai è mancato chi abbia tentato di approfittare della buona volontà altrui. Putin da che parte sta?